Che vuol dire esser atei – di Gianni Pardo

Ho superato da parecchi mesi gli ottant’anni e non ho ancora vinto la ritrosia a parlare in prima persona. Il motivo è sempre stato che l’“io” altrui è odioso e ingombrante. La maggior parte delle volte, quando il prossimo parla di sé, lo ascoltiamo per mera cortesia e aspettiamo soltanto che la finisca. Coerentemente, ho sempre cercato di seccare il prossimo il meno possibile. Forse, quando ci sentiamo costretti a parlare di noi stessi, dovremmo dare soltanto nome e cognome, come i prigionieri di guerra. Anche se loro aggiungevano corpo di appartenenza e grado.

Alla regola del non parlare di sé si possono tuttavia fare delle eccezioni. Se Primo Levi ha parlato della sua detenzione in un campo di sterminio, è stato perché l’umanità sapesse e non dimenticasse. Se S.Agostino scrive le Confessioni, è per mostrare in che modo è arrivato alla fede. Esattamente come Rousseau, anche lui autore di “Confessioni”. Solo che Rousseau voleva mostrare come in lui si fosse incarnato “l’uomo della natura” che predicava. E che per fortuna non è stato imitato.

Non ho letto questi tre libri. Ho invece letto i “Saggi” di Montaigne. Perché qui l’io non è quello di Michel, è quello di tutti. Se mai ci fu un uomo che non si concentrò su di sé, fu proprio questo dolce filosofo. Se parla in prima persona è perché ha l’impressione di parlare con gli amici. E i lettori del resto hanno la sensazione di incontrare in lui un amico.

Montaigne non è narcisista e non scrive per vantarsi. Non è impudico e non scrive per raccontarsi. Non presenta nemmeno le sue considerazioni con il sussiego e l’autorevolezza dell’impersonalità. Come ha detto La Bruyère, ci si accosta alla sua opera per leggere un libro, e si incontra un uomo. Un amico, appunto. E nel mio piccolo, seguendo l’esempio di Montaigne, amerei mostrare come si intreccino i diversi aspetti del mio modo di essere che a volte, nel corso degli anni, hanno sorpreso gli amici.

Lo scopo di questa esposizione è fondamentalmente quello di mostrare che molte posizioni esistenziali sono ibride, e questa chiacchierata potrebbe servire ad avere le idee chiare sulla propria coerenza, in relazione alla scelta effettuata.

L’evento più importante della mia prima adolescenza fu l’incontro con un giovane, allora liceale, il quale era profondamente credente (tanto che poi si fece prete) e cercò di “convertirmi”. Forse si rese conto del tipo con cui aveva a che fare, e certo non fece appello ai buoni sentimenti. Benché io avessi dodici o tredici anni, il suo apostolato fu portato avanti a base di filosofia. La sua tesi era che il cattolicesimo era una dottrina razionale, interamente dimostrata dalla A alla Z, prova ne sia che cominciò provandomi l’esistenza di Dio. Così conobbi Aristotele e San Tommaso ben prima dei quindici anni e presto divenni furiosamente credente anch’io. Sarei anzi stato contento di incontrare qualche miscredente per metterlo con le spalle al muro con la mia dialettica. Qualcuno ogni tanto mi chiedeva se intendessi andare in seminario ed io rispondevo che non se ne parlava neppure, non amo le scelte irreversibili.

Questo momento della mia giovane vita fu importantissimo perché non si trattò di “aggiungere” la fede alla mia vita normale, ma di “interpretare il mondo alla luce della fede”. Forse è questo che gli scrittori cattolici intendono con: “Rinascere in Cristo”.

In quegli anni non conoscevo la solitudine, perché Gesù era con me. Non avevo perplessità, perché ogni cosa mi era stata spiegata. La mia vita aveva un senso, e l’aveva quella dell’umanità intera. Del resto, anche l’Universo aveva un senso. È vero che la sua vastità sconfinata poteva apparire assurda, se tutto era stato creato in funzione dell’uomo, ma era anche vero che Dio, essendo onnipotente, non aveva problemi di costi, neppure per creare un cielo stellato. Dio era anche la sorgente delle regole morali, sociali, umane. La fede costituiva una sistemazione del reale senza residui e senza falle. Non c’era che da seguire la via tracciata, per infine giungere alla visione beatifica di Dio, che altri chiamano Paradiso.

Tutto ciò durò due o tre anni, poi la mia razionalità prese il sopravvento. Cominciai a formulare delle obiezioni e a proporle ai miei amici preti, rimanendo sempre più impressionato dalla loro incapacità di resistere alle mie osservazioni. Per esempio, essi obiettavano che lo spazio non può essere infinito perché infinito è solo Dio, ed io ancora credente, dicevo che, recatomi al confine dello spazio, avrei sempre potuto tirare una pietra verso l’esterno, creando ulteriore spazio. E loro si contorcevano senza sapermi rispondere. Poi le obiezioni divennero sempre più serie e infine qualcuno mi consigliò di rivolgermi alla fonte. Così un mio cugino mi regalò una riduzione in cinque libri della Summa Theologica di S.Tommaso e fu benzina sul fuoco.

Già molte delle dimostrazioni dell’esistenza di Dio facevano ridere. Che diamine voleva dire che, visto che gli uomini avevano sete di giustizia, e sulla Terra non c’era giustizia, “doveva necessariamente esserci” un Dio che un giorno rispondesse a questa sete di giustizia? Se un uomo ha sete, ciò non dimostra l’esistenza di una fontanella nelle vicinanze. E se su un’isola deserta non c’è acqua, e ci sono mille persone assetate, sarà pure orribile, ma anche se quelle persone sono numerose, non per questo non moriranno. E lo stesso per la sete di felicità (argomento pomposamente battezzato “eudemonologico”) e per altre dimostrazioni ancora. Ma soprattutto le mie obiezioni sulla concezione dell’anima immortale divennero così puntute e incalzanti che non soltanto nessuno sapeva controbattermi, ma quando addirittura andai a parlare con un famoso teologo della città, questi mi confessò che, “come le formulavo io”, quelle obiezioni non avevano risposta.

Non avevo ancora compiuto sedici anni, ma fu come se il Cielo mi fosse caduto sulla testa. Se non abbiamo un’anima immortale, tutta la religione viene giù. E con essa tutto ciò che ad essa è collegato.

Le dimostrazioni dell’esistenza di Dio che dànno i filosofi, i preti, e perfino S.Anselmo non stanno in piedi. Inoltre quand’anche ci fosse un Dio creatore, se questo Dio non fosse provvidenziale, se cioè non si occupasse degli uomini (come infatti credevano Aristotele e Voltaire) la sua esistenza o non esistenza sarebbe del tutto ininfluente. Se nella mia città non c’è una banca o se nessuna banca mi fa credito, il risultato per le mie finanze è identico.

Con l’anima e con Dio non spariva soltanto la religione. Spariva il fondamento della morale. Spariva il senso della mia vita. Anzi, spariva il senso della vita dell’intera umanità. La sua stessa esistenza andava a far parte della zoologia. Spariva d’un sol colpo l’intero soprannaturale. Non c’era altro da vedere, altro da scoprire, altro da cercare. La realtà non era l’apparenza dietro cui c’era la sostanza, ma quell’apparenza era tutta la sostanza.

In una parola, come prima ero stato un credente che si alzava presto e andava in chiesa a comunicarsi, digiuno, per poi correre a scuola, nello stesso modo ricostruii pazientemente e testardamente la mia nuova realtà sulla base della pura materia. Materia era il mondo, materia era l’universo, materia era tutto ciò che mi circondava, materia ero io. Niente aveva senso, niente aveva scopo, niente aveva una spiegazione. Io non ero più importante di una mosca, e come una mosca sarei scomparso senza lasciare traccia.

Imparai a non fare l’esame di coscienza la sera, a non dire le preghiere, a non parlare con Gesù, nel mio intimo, dicendomi che sarei stato un pazzo, se l’avessi fatto. Non c’era nessuno, nel mio intimo. Forse non c’ero neanch’io, nel senso che il mio pensiero era soltanto l’attività delle cellule del mio cervello. Ero un accidente naturale come gli animali, le piante e le nuvole. La Terra era una palla impazzita e inutile che girava intorno al Sole, tutto l’universo era un’enorme macchina che girava a vuoto. E anch’io non ero nulla, non potevo sperare in nulla, ero solo, assolutamente solo e insignificante.

In quegli anni senza amici, senza dialogo e senza speranze ho sofferto come mai più in seguito. Ero un disadattato e neanche nella mia famiglia mi sentivo a mio agio. Questa crisi dell’esistenza l’ho assaporata fino all’ultima goccia di fiele per tre o quattro anni.

Mi dilungo su questo argomento non per raccontarmi ma per far vedere come l’ateismo è parecchio di più di ciò che crede la gente. La morte di Dio lascia uno spazio molto più grande di un altare vuoto. Se si chiede chi è un ateo, la risposta è: “Uno che non crede all’esistenza di Dio”. E addirittura probabilmente questa è anche la definizione che darebbe di sé lo stesso ateo. Ma questa definizione, se non è erronea, poco ci manca.

Infatti non è un ateo chi crede nel dovere di farsi una famiglia e di avere dei figli, chi crede che tutti debbano giudicare “male” la pornografia, chi è convinto dell’infinito progresso dell’umanità, chi è sicuro che la sua vita ha un senso e uno scopo, chi pensa che tutti abbiamo il dovere della solidarietà umana, e mille altre cose di questo genere. Forse non crede a ciò che raccontano in chiesa, ma non sa quante ammissioni di “verità” ci siano, nelle idee correnti, di cui non si è reso conto. Cose che ha accettato senza alcuna dimostrazione e che tuttavia guidano la sua vita. L’ateo normale sarebbe sorpreso e offeso se gli si dicesse: “Sei ateo? Allora non sei diverso da un maiale”. Ebbene, il vero ateo dovrebbe rispondere: “Proprio così”. E non per guasconeria, semplicemente perché è la pura verità. Tutta la nobiltà dell’uomo, tutta la nostra superiorità sugli animali e sul resto del nostro pianeta, è pura leggenda. Non c’è niente che dimostri questa superiorità, a parte la nostra vanità. Saremo più intelligenti di un cane, ma questa non è una vera differenza, è soltanto una questione di grado. Il cane potrebbe dire alla tartaruga che fra loro c’è una differenza abissale, perché lui, il cane, è molto più intelligente. E avrebbe ragione. Ma perché mai la frontiera essenziale dovrebbe essere fra la tartaruga e il cane da un lato e noi dall’altra, e non fra noi e il cane da una parte, e la tartaruga? Il salto è maggiore fra un mammifero e un rettile che fra due mammiferi superiori.

Ecco il punto centrale di questa confessione. Si può ammettere l’esistenza di Dio, si può ammettere la concezione corrente della realtà, si può perfino essere molto religiosi, purché si sappia che si stanno ammettendo delle cose indimostrate e indimostrabili. Vi conviene vivere così? Fatelo, ma non escludete Dio, che non è la più assurda delle vostre convinzioni.

E se al contrario non si crede all’esistenza di Dio, e neppure a tutte le cose che alla gente sembrano ovvie, allora l’opera di decostruzione è molto più complessa e radicale del semplice ateismo “teologico”, quello che si limita a negare Dio. Infatti il creatore è il riassunto finale della metafisica, cioè il fondamento di tutto e la spiegazione di tutto. Senza di lui, crolla anche il resto, nulla ha fondamento e nulla ha una spiegazione. La realtà – materiale e meccanicistica – si constata soltanto. E non ha bisogno di sapere perché è.

Il collegamento fra tutte le credenze che creano la nostra normale mentalità e Dio è più forte di quanto non si pensi. Da un lato abbiamo creato Dio per dare un senso e un nocciolo a tutto ciò che pensiamo, dall’altro se neghiamo Dio togliamo il senso e il significato a tutto ciò che crediamo normalmente. Le dimostrazioni di San Tommaso, secondo cui Dio deve esistere perché gli uomini hanno bisogno di una risposta ai loro aneliti e alle loro speranze, è più profonda di quanto credesse lo stesso Aquinate. E infatti, precedendo lo stesso Feuerbach, Tommaso ha dimostrato, invece dell’esistenza di Dio, l’esistenza del bisogno degli uomini di crearlo.

È inverosimile a che punto tutti noi abbiamo accettato senza saperlo una serie di codici. Ecco un esempio. Per l’italiano normale la morale è quella che insegnano i preti nelle chiese. Poi molti perdono la fede, si dicono miscredenti, ma a quella morale continuano a credere. E se interrogati vi diranno che quella morale è “naturale”. Soltanto che poi non saprebbero che cosa rispondere se gli si facesse notare che le regole morali sono diverse nei diversi luoghi e nelle diverse epoche. Mentre, essendo una la natura umana, dovrebbe esserci soltanto una morale.

Il profano a questa obiezione non saprebbe rispondere, ma saprebbe farlo Immanuel Kant. Questi, essendo un genio, per la morale ha creato un fondamento astratto ed universalmente valido. La morale, a suo parere, deriva dall’imperativo che ciascuno di noi sente in sé. Una voce che gli dice “tu devi” senza che sia necessario spiegargli perché deve.

Ottima posizione teorica. Ma Kant credeva in Dio e poteva pensare che Dio avesse posto questa molla morale nel cuore di tutti gli uomini. L’ateo invece, non potendo accettare questa ipotesi, potrebbe rispondere che quel “tu devi” è la voce dell’istinto, del condizionamento o perfino dell’abitudine. Niente di morale, dunque. Sicché, prima di obbedire a chi mi dice “tu devi”, io rispondo: “E perché devo?” Tanto che, se non riesco a darmi una risposta valida, l’intera morale svanisce nell’aria. Personalmente rispondo: “Io ‘devo’ perché la mia vita è facilitata se mi comporto da persona perbene”. Questo è il fondamento della mia morale. E mi basta. Ma il fatto che io abbia il potere di giudicarla, di accettarla o respingerla, le toglie ogni valore generale o metafisico.

Analogamente sorrido quando mi sento dare del pessimista. Molti mi imputano questa posizione perché credo a quello che vedo e lo dico senza addolcimenti. Per me non vale niente l’argomentazione napoletana per cui “pare brutto” dire certe cose. Una cosa è vera o falsa, ecco che cosa importa, non il suo sapore. Se gli uomini si comportano da egoisti, io credo che gli uomini siano egoisti. E tutti i discorsi sulla solidarietà umana, tutti i ditirambi su personaggi come Gandhi o Madre Teresa di Calcutta mi lasciano indifferente.

Non soltanto gli uomini sono egoisti, e non soltanto le eccezioni non contano, ma c’è il sospetto che anche i santi siano egoisti, nel senso che amano il superamento di sé come certi rocciatori che rischiano la vita solo per conquistare una vetta che non li aspettava e non si commuoverà certo vedendoli arrivare. Lo sforzo per lo sforzo, lo sforzo per il record, o anche la compensazione di chissà quali abissi di problemi psichici non sono atti di generosità.

Molti credono che la miscredenza e l’ateismo siano posizioni comode, una sorta di libera uscita, di autorizzazione a divertirsi e a non tenere conto di nessun vincolo. È una stupidaggine. Il superficiale non si pone neppure il problema morale o metafisico. L’ipocrita trova più comodo levarsi il cappello dinanzi ai principi comuni e nella sostanza fare tutto ciò che vuole. Perfino un genio come Blaise Pascal si lascia andare a questa spregevole posizione, quando parla della sua famosa “scommessa”. Egli si chiede e ci invita a chiederci: “Che cosa rischio, a credere in Dio? Se esiste mi accoglierà in Paradiso, se non esiste non avrò perduto niente”. Insomma fa l’ipotesi di credere in Dio per paura e per pura convenienza. Forse quel giorno aveva voglia di scherzare.

Se ho raccontato una parte della mia giovinezza è stato per sottolineare che per la persona pensosa un ateismo rigoroso è impresa terribilmente ardua. Infatti l’assenza di Dio impone una risistemazione della realtà senza parapetti, senza sostegni, senza la benché minima illusione consolatoria. In un vecchio libro, tanti anni fa, un personaggio ammoniva un amico che, comportandosi in quel modo avrebbe avuto problemi, guai e vermi. “Vermi?” chiedeva l’altro, sorpreso. “Vermi. Nella cassa da morto, chi credi che verrà a visitarti?” Ecco, questa è la visione della vita dell’ateo. Quello che accetta di essere il fratello del maiale, quello che accetta la puzza di carogna che farà dopo morto. Quello che accetta la realtà com’è.

Ora qualcuno mi chiederà se mi sento di consigliare un simile punto di vista.

Innanzi tutto, sono costretto a dirvi che non m’importa abbastanza del prossimo per invitarlo ad essere in un modo o nell’altro. La salvezza intellettuale dell’umanità in direzione della verità non soltanto non dipende da me, non soltanto è impossibile, ma è perfino inutile. Se un uomo si illude per tutta la vita e muore felice, ha fatto un affarone. Forse è l’uomo di massimo successo e mai gli direi che si è illuso. Nulla vale più della felicità.

In secondo luogo a me, dopo essere riuscito ad accettare la realtà com’è, è riuscito di risalire dal fondo dell’abisso fino ad una costante serenità intellettuale che mi ha accompagnato per più di sessant’anni. E se non sono sicuro che a un altro riuscirebbe la stessa impresa, con quale coraggio potrei consigliargli quella via?

L’unica cosa che mi piacerebbe trasmettere è un chiarimento. Non pensate che credere in Dio o non credere in Dio consista in una semplice dichiarazione. Se accettate la morale corrente, se vi inchinate e tutte le regole del vostro ambiente, in base alle quali ogni cosa va fatta o non va fatta, se siete convinti che “c’è qualcosa di importante al di là di tutto ciò che vediamo” e via di seguito, sappiate che, con Dio o senza Dio, siete dei credenti. Che cosa c’è, esattamente, cinquanta chilometri sotto i miei piedi? Non lo so e non lo saprò mai, è un mistero, ma un mistero insignificante. Che sia roccia o magma non cambia nulla, per me. E certo non mi rende né felice né infelice. Non sappiamo tutto, è vero, ma sappiamo abbastanza per piangere sulla nostra insignificanza e sulla nostra miseria di esseri umani.

Se volete essere dei miscredenti dovete smettere di credere a tutto, perché la maggior parte delle cose che vedete sono sovrastrutture. Guardate il vostro gatto, se ne avete uno, e ditevi che la realtà la vede meglio lui di come la vedete voi. Un gatto non si chiederà mai che senso ha la sua vita, se ci sia un Dio o no e se avremo qualche esperienza dopo la morte. Distinguerà la fame e la sazietà, il freddo e il caldo, l’affetto o la crudeltà, e li vivrà nella loro immediatezza, senza vederci niente dietro, e senza credere che la vita in generale sia gioia o sia dolore. In questo senso la sa più lunga di noi, perché non si racconta stupidaggini. E se è felice è l’esempio da seguire.

 

LA VOGLIA DI SUICIDIO DELL’OCCIDENTE

di Gianni Pardo

Ogni volta che può, Federico Rampini batte sul chiodo della volontà suicida dell’Occidente. Ed ha ragione. Infatti, se non cambia il vento, dalla volontà del suicidio al suicidio stesso la strada è diritta e in discesa.

In generale l’istinto di tutti gli esseri viventi è proprio quello della massima difesa propria e della propria prole, per la sopravvivenza della specie. Dunque l’atteggiamento autolesionista dovrebbe essere assolutamente eccezionale. E tuttavia può verificarsi, come avviene in America, che gli intellettuali, i giovani e insomma tutti coloro che seguono la corrente di pensiero più alla moda, facciano a gara a riconoscere le colpe dell’uomo bianco, anche le più inverosimili ed anche le più impensate, fino a voler cancellare dalla storia (come una vergogna) personaggi come Cristoforo Colombo. Il quale, poverino, ha sì scoperto l’America, ma non ha mai nemmeno sospettato di avere commesso questo misfatto.

La spiegazione di un simile fenomeno potrebbe essere non un affievolimento dell’istinto di conservazione, quanto la perdita della coscienza della necessità di difendersi. Per intenderci: se ci si avvicina ad un predatore che sta mangiando la sua preda (per esempio un leone) quello reagisce con minacce e, se insistiamo, con attacchi. Perché nella savana c’è poco da essere generosi: sazietà significa sopravvivenza e digiuno può significare morte. Viceversa il bambino della famiglia ricca darà facilmente una parte della sua brioscina, o anche l’intera brioscina ad un altro bambino: in primo luogo perché è già sazio e in secondo luogo perché sa che, se ne chiede un’altra a mammina, l’otterrà immediatamente. La sua generosità nasce dalla certezza che non mancherà di quel bene.

Venendo al tema che ci interessa: come mai i giovani universitari americani sono tanto anti-americani? Sanno di poterlo essere perché quella stessa America che loro disprezzano gli consente anche questo lusso. Quando si è sicuri di vivere in una democrazia veramente solida, ci si consente anche di dirne male, di contestarla, di condannarla sul piano economico e sul piano morale perché, mentre la mossa appare coraggiosa (loro chiamano questo «lottare»), in realtà non si corre alcun rischio. Neanche quello di un comportamento in linea con le loro idee. I giovani condannano gli Stati Uniti perché hanno rubato il territorio agli indiani d’America, ma nessuno li sloggerà dagli States e certo loro non andranno a vivere in Rwanda per fare più spazio ai pellerossa. Insomma la moda dell’autofustigazione imperversa perché è gratificante sul piano morale e nel contempo priva di costi. È come se ad ogni occasione e su qualunque argomento questi giovani moralizzatori dicessero: «Avete visto come sono capace di riconoscere le responsabilità, le malefatte, i torti dell’uomo bianco? Ecco, in nome di tutti i bianchi, confesso i nostri torti e comprendo il vostro rancore. Anzi, lo condivido, anzi lo grido. Sarò pure americano ma sono anti-americano». Dopo di che, perdono forse il passaporto? No. Cambiano stile di vita? No. Si privano di qualcosa – anche se inquinante – che fa parte delle loro comodità? No. Nessuno fa tre chilometri a piedi pur di non immettere anidride carbonica nell’atmosfera, con l’automobile.

In fondo moltissimi credono che le loro idee – l’ecologismo che vieta tutto, il misoneismo, l’orrore per il progresso – siano una novità e non sanno che esse sono in realtà un rigurgito del rousseauismo settecentesco. È stato Rousseau che ha lanciato il mito del buon selvaggio, che vive nella Natura secondo le leggi della Natura. Ovviamente non è che Rousseau fosse un etnologo, si trattava di una sua fantasia. Se solo fosse andato in Papuasia avrebbe visto che in realtà il buon selvaggio non è poi tanto buono, anche perché conduce una vita stenta, difficile e pericolosa. Prova ne sia che raramente riesce ad invecchiare. Il buon selvaggio non ha un buon riparo, non ha buoni mezzi per difendersi dalle intemperie, non dispone della medicina se sta male. Detto in breve: una settimana di vita da buon selvaggio, e per chiunque il mito svanirebbe.

Ciò malgrado esso prospera da sempre. Perfino Maria Antonietta, per sacrificare alla moda, andò a mungere le vacche al Petit Trianon (salvo errori) nei giardini di Versailles. Come sempre, il mito del ritorno alla Natura tanto più attecchisce, quanto più si vive nel benessere. Moltissimi stramaledicono il cellulare che danneggia i rapporti umani piuttosto che favorirli, ma provate a privarli del cellulare per mezza giornata.

La moda di attribuire tutte le colpe all’uomo bianco e al mondo che egli ha creato (un mondo per entrare nel quale in migliaia rischiano la vita nel Mediterraneo o nella frontiera messicana) è soltanto l’ultimo lusso dell’uomo bianco: così egli non ha soltanto la vita più comoda, ma anche l’illusione della più alta sensibilità morale.

LA VOGLIA DI SUICIDIO DELL’OCCIDENTE di Gianni Pardo

Ogni volta che può, Federico Rampini batte sul chiodo della volontà suicida dell’Occidente. Ed ha ragione. Infatti, se non cambia il vento, dalla volontà del suicidio al suicidio stesso la strada è diritta e in discesa.

In generale l’istinto di tutti gli esseri viventi è proprio quello della massima difesa propria e della propria prole, per la sopravvivenza della specie. Dunque l’atteggiamento autolesionista dovrebbe essere assolutamente eccezionale. E tuttavia può verificarsi, come avviene in America, che gli intellettuali, i giovani e insomma tutti coloro che seguono la corrente di pensiero più alla moda, facciano a gara a riconoscere le colpe dell’uomo bianco, anche le più inverosimili ed anche le più impensate, fino a voler cancellare dalla storia (come una vergogna) personaggi come Cristoforo Colombo. Il quale, poverino, ha sì scoperto l’America, ma non ha mai nemmeno sospettato di avere commesso questo misfatto.

La spiegazione di un simile fenomeno potrebbe essere non un affievolimento dell’istinto di conservazione, quanto la perdita della coscienza della necessità di difendersi. Per intenderci: se ci si avvicina ad un predatore che sta mangiando la sua preda (per esempio un leone) quello reagisce con minacce e, se insistiamo, con attacchi. Perché nella savana c’è poco da essere generosi: sazietà significa sopravvivenza e digiuno può significare morte. Viceversa il bambino della famiglia ricca darà facilmente una parte della sua brioscina, o anche l’intera brioscina ad un altro bambino: in primo luogo perché è già sazio e in secondo luogo perché sa che, se ne chiede un’altra a mammina, l’otterrà immediatamente. La sua generosità nasce dalla certezza che non mancherà di quel bene.

Venendo al tema che ci interessa: come mai i giovani universitari americani sono tanto anti-americani? Sanno di poterlo essere perché quella stessa America che loro disprezzano gli consente anche questo lusso. Quando si è sicuri di vivere in una democrazia veramente solida, ci si consente anche di dirne male, di contestarla, di condannarla sul piano economico e sul piano morale perché, mentre la mossa appare coraggiosa (loro chiamano questo «lottare»), in realtà non si corre alcun rischio. Neanche quello di un comportamento in linea con le loro idee. I giovani condannano gli Stati Uniti perché hanno rubato il territorio agli indiani d’America, ma nessuno li sloggerà dagli States e certo loro non andranno a vivere in Rwanda per fare più spazio ai pellerossa. Insomma la moda dell’autofustigazione imperversa perché è gratificante sul piano morale e nel contempo priva di costi. È come se ad ogni occasione e su qualunque argomento questi giovani moralizzatori dicessero: «Avete visto come sono capace di riconoscere le responsabilità, le malefatte, i torti dell’uomo bianco? Ecco, in nome di tutti i bianchi, confesso i nostri torti e comprendo il vostro rancore. Anzi, lo condivido, anzi lo grido. Sarò pure americano ma sono anti-americano». Dopo di che, perdono forse il passaporto? No. Cambiano stile di vita? No. Si privano di qualcosa – anche se inquinante – che fa parte delle loro comodità? No. Nessuno fa tre chilometri a piedi pur di non immettere anidride carbonica nell’atmosfera, con l’automobile.

In fondo moltissimi credono che le loro idee – l’ecologismo che vieta tutto, il misoneismo, l’orrore per il progresso – siano una novità e non sanno che esse sono in realtà un rigurgito del rousseauismo settecentesco. È stato Rousseau che ha lanciato il mito del buon selvaggio, che vive nella Natura secondo le leggi della Natura. Ovviamente non è che Rousseau fosse un etnologo, si trattava di una sua fantasia. Se solo fosse andato in Papuasia avrebbe visto che in realtà il buon selvaggio non è poi tanto buono, anche perché conduce una vita stenta, difficile e pericolosa. Prova ne sia che raramente riesce ad invecchiare. Il buon selvaggio non ha un buon riparo, non ha buoni mezzi per difendersi dalle intemperie, non dispone della medicina se sta male. Detto in breve: una settimana di vita da buon selvaggio, e per chiunque il mito svanirebbe.

Ciò malgrado esso prospera da sempre. Perfino Maria Antonietta, per sacrificare alla moda, andò a mungere le vacche al Petit Trianon (salvo errori) nei giardini di Versailles. Come sempre, il mito del ritorno alla Natura tanto più attecchisce, quanto più si vive nel benessere. Moltissimi stramaledicono il cellulare che danneggia i rapporti umani piuttosto che favorirli, ma provate a privarli del cellulare per mezza giornata.

La moda di attribuire tutte le colpe all’uomo bianco e al mondo che egli ha creato (un mondo per entrare nel quale in migliaia rischiano la vita nel Mediterraneo o nella frontiera messicana) è soltanto l’ultimo lusso dell’uomo bianco: così egli non ha soltanto la vita più comoda, ma anche l’illusione della più alta sensibilità morale.

LA PACE NATA DALLE FRONTIERE INTANGIBILI

di Gianni Pardo

Può darsi che la Russia, se vince la guerra, si appropri di una parte dell’Ucraina, ma nondimeno – col tempo ce ne accorgeremo tutti – ha aperto il vaso di Pandora.

Dopo la guerra del 1870 si firmò una pace che attribuiva alla Germania vincitrice l’Alsazia e la Lorena. Una pace che la Francia firmò ma non accettò mai, prova ne sia che aspettò oltre quarant’anni il momento della rivincita, che si ebbe con la Prima Guerra Mondiale. Anche questa si concluse con una pace, che stavolta lasciò scontentissima la Germania, umiliata e sottoposta a condizioni eccessivamente severe. Sicché anch’essa cominciò a sognare la rivincita, con le conseguenze che sappiamo.

Viceversa, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, l’orrore per la guerra, e la volontà di fare qualunque cosa perché non scoppiasse mai più, spinse tutti i Paesi ad accettare le nuove frontiere, per quanto assurde o ingiuste potessero essere. Si accettò che la Russia si appropriasse di territori polacchi orientali, compensando la Polonia con territori tedeschi orientali. Tanto che i tedeschi parlarono di scivolamento (Verschiebung) della Polonia verso ovest. E questo mentre la Polonia era, caso mai, fra i vincitori, non gli sconfitti della guerra. Né qualcuno osò protestare contro l’annessione, da parte della Russia, della Prussia orientale, capoluogo Königsberg, dove nacque e visse Kant. L’Italia perse l’Istria e la Dalmazia, e poco ci mancò perdesse anche Trieste. Ma tutti avevano la coscienza che questa costruzione, per quanto strampalata, non andava toccata a nessun costo per il bene della pace. Si permise persino che l’Unione Sovietica imponesse il suo potere a tutto l’est dell’Europa, facendone parte obbediente e sottomessa del suo impero. Tanto forte era l’esigenza di pace, che si è persino tollerata l’annessione della Crimea, senza nessuna provocazione e senza nessuna giustificazione. I pro russi dicono: «Gli abitanti della Crimea si sentono russi». Ma questo è un argomento che vale poco, diversamente qualcuno potrebbe dire che a Bolzano e a Merano si sentono austriaci, e dunque quei territori dobbiamo attribuirli all’Austria. Mentre la Svizzera dovrebbe farci il favore di restituirci il Canton Ticino, di lingua e cultura italiana. Non si finirebbe mai.

Comunque gli Occidentali hanno mostrato un’indebita pazienza quando si è trattato della Crimea, ma non hanno potuto fare altrettanto quando la Russia ha tentato di ingoiare l’Ucraina. E proprio questo è il punto.

Nel 2022 la Russia non ha soltanto violato la legge internazionale e le sue stesse promesse all’Ucraina di rispetto delle frontiere: ha distrutto il pilastro fondamentale della pace in Europa. Se la Russia può impunemente appropriarsi l’Ucraina (che si chiama Ucraina e non Russia), perché mai la Germania non potrebbe andare a riprendersi i territori e le città che prima si chiamavano Germania ed ora dovrebbero chiamarsi Polonia? E se scoppiasse una guerra generale, non è ovvio che la Polonia vorrebbe indietro ciò che è suo?

Toccare le frontiere corrisponde a scoperchiare un nido di vipere, perché tutti i Paesi hanno le loro rivendicazioni. Forse è questa la più grande mala azione compiuta dalla Russia nel 2022: nel 2024 le frontiere non dipendono più dalla volontà di pace, come fino a tutto il 2021, ma dipendono dalla forza, e questa logica è proprio quella che una volta o l’altra porta alla guerra.

Ciò è tanto vero che mentre, fino a qualche anno fa, l’Europa ingenua e pacifista sognava di abolire gli eserciti (e le spese per la difesa) ora la Germania ha ripreso a riarmarsi seriamente, e tutti sognano di costituire un esercito europeo per la difesa comune. Mentre prima si commerciava con tutti, ora gli Stati stanno attenti a distinguere i prodotti che possono importare dall’estero e quelli strategici, che bisogna essere in grado di produrre da sé, anche a costi superiori. Parliamo soprattutto degli armamenti. Si potrebbe continuare ma basterà dire che la guerra d’Ucraina ha posto fine alla mentalità irenica e sognante dell’Europa pigra, riportandola con i piedi per terra. Chissà che Ventesimo Secolo non sia finito il 24 febbraio 2022.

LA PACE NATA DALLE FRONTIERE INTANGIBILI di Gianni Pardo

Può darsi che la Russia, se vince la guerra, si appropri di una parte dell’Ucraina, ma nondimeno – col tempo ce ne accorgeremo tutti – ha aperto il vaso di Pandora.

Dopo la guerra del 1870 si firmò una pace che attribuiva alla Germania vincitrice l’Alsazia e la Lorena. Una pace che la Francia firmò ma non accettò mai, prova ne sia che aspettò oltre quarant’anni il momento della rivincita, che si ebbe con la Prima Guerra Mondiale. Anche questa si concluse con una pace, che stavolta lasciò scontentissima la Germania, umiliata e sottoposta a condizioni eccessivamente severe. Sicché anch’essa cominciò a sognare la rivincita, con le conseguenze che sappiamo.

Viceversa, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, l’orrore per la guerra, e la volontà di fare qualunque cosa perché non scoppiasse mai più, spinse tutti i Paesi ad accettare le nuove frontiere, per quanto assurde o ingiuste potessero essere. Si accettò che la Russia si appropriasse di territori polacchi orientali, compensando la Polonia con territori tedeschi orientali. Tanto che i tedeschi parlarono di scivolamento (Verschiebung) della Polonia verso ovest. E questo mentre la Polonia era, caso mai, fra i vincitori, non gli sconfitti della guerra. Né qualcuno osò protestare contro l’annessione, da parte della Russia, della Prussia orientale, capoluogo Königsberg, dove nacque e visse Kant. L’Italia perse l’Istria e la Dalmazia, e poco ci mancò perdesse anche Trieste. Ma tutti avevano la coscienza che questa costruzione, per quanto strampalata, non andava toccata a nessun costo per il bene della pace. Si permise persino che l’Unione Sovietica imponesse il suo potere a tutto l’est dell’Europa, facendone parte obbediente e sottomessa del suo impero. Tanto forte era l’esigenza di pace, che si è persino tollerata l’annessione della Crimea, senza nessuna provocazione e senza nessuna giustificazione. I pro russi dicono: «Gli abitanti della Crimea si sentono russi». Ma questo è un argomento che vale poco, diversamente qualcuno potrebbe dire che a Bolzano e a Merano si sentono austriaci, e dunque quei territori dobbiamo attribuirli all’Austria. Mentre la Svizzera dovrebbe farci il favore di restituirci il Canton Ticino, di lingua e cultura italiana. Non si finirebbe mai.

Comunque gli Occidentali hanno mostrato un’indebita pazienza quando si è trattato della Crimea, ma non hanno potuto fare altrettanto quando la Russia ha tentato di ingoiare l’Ucraina. E proprio questo è il punto.

Nel 2022 la Russia non ha soltanto violato la legge internazionale e le sue stesse promesse all’Ucraina di rispetto delle frontiere: ha distrutto il pilastro fondamentale della pace in Europa. Se la Russia può impunemente appropriarsi l’Ucraina (che si chiama Ucraina e non Russia), perché mai la Germania non potrebbe andare a riprendersi i territori e le città che prima si chiamavano Germania ed ora dovrebbero chiamarsi Polonia? E se scoppiasse una guerra generale, non è ovvio che la Polonia vorrebbe indietro ciò che è suo?

Toccare le frontiere corrisponde a scoperchiare un nido di vipere, perché tutti i Paesi hanno le loro rivendicazioni. Forse è questa la più grande mala azione compiuta dalla Russia nel 2022: nel 2024 le frontiere non dipendono più dalla volontà di pace, come fino a tutto il 2021, ma dipendono dalla forza, e questa logica è proprio quella che una volta o l’altra porta alla guerra.

Ciò è tanto vero che mentre, fino a qualche anno fa, l’Europa ingenua e pacifista sognava di abolire gli eserciti (e le spese per la difesa) ora la Germania ha ripreso a riarmarsi seriamente, e tutti sognano di costituire un esercito europeo per la difesa comune. Mentre prima si commerciava con tutti, ora gli Stati stanno attenti a distinguere i prodotti che possono importare dall’estero e quelli strategici, che bisogna essere in grado di produrre da sé, anche a costi superiori. Parliamo soprattutto degli armamenti. Si potrebbe continuare ma basterà dire che la guerra d’Ucraina ha posto fine alla mentalità irenica e sognante dell’Europa pigra, riportandola con i piedi per terra. Chissà che Ventesimo Secolo non sia finito il 24 febbraio 2022.

L’IMPERO ROMANO VISTO DALLA CALIFORNIA di Gianni Pardo

Il prof. Walter Scheidel, storico della Stanford University californiana, invece di dolersi (come fanno tutti) della caduta dell’Impero Romano, la descrive come un enorme colpo di fortuna per l’Europa. A suo dire, «La disintegrazione dell’Impero Romano liberò l’Europa dal governo di un singolo potere unificato. I monopoli imperiali fornirono pace e stabilità ma, nel continuo tentativo di mantenere lo status quo, tendenzialmente soffocarono la sperimentazione e il dissenso». Scomparso l’Impero, sostiene, le diverse forze politiche, militari, economiche e religiose furono libere di scontrarsi, combattersi e trovare compromessi. Roma ci lasciò qualche cosa di positivo: le lingue romanze, il calendario, il cemento, l’alfabeto e il diritto romano. Ed anche certe caratteristiche del Cristianesimo. Scheidel conclude tuttavia: «Il più importante contributo dell’Impero romano fu quello di essersene andato via per sempre…».
È evidente che il prof. Scheidel ed io, pur essendo probabilmente ambedue anziani, non siamo stati compagni di banco. Infatti quella che conosco io è una storia del tutto diversa. Comincerò con il sottolineare che il singolo potere unificato si ebbe dopo la morte di Augusto, e cioè per poco più di quattro secoli su tredici. Prima di Augusto il potere fu collegiale. In seguito, anche quando divenne un’autocrazia, l’Impero fu troppo grande perché i suoi massimi difetti (corruzione, complottismo, tradimenti, esazioni, ecc.) si manifestassero in regioni lontane dal Lazio. Dappertutto imperava la legge romana e, se il peculato era all’ordine del giorno, se in periferia c’era corruzione, ciò avveniva lì come a Roma e indipendentemente da Roma. Ché anzi, nei casi più gravi, i colpevoli furono puniti con la più tremenda severità: si ricordi come morì Verre. In conclusione, i cittadini dell’impero si sentivano sostanzialmente liberi, perché la politica romana fu sempre quella della tolleranza: tutti erano liberi di avere la religione di loro scelta (si ricordi l’esistenza del Pantheon), e dovevano soltanto dichiararsi fedeli a Roma. I vari popoli erano felici di avere la civiltà romana, e le loro città imitavano Roma persino nei monumenti e nei divertimenti (gli anfiteatri, le terme, ecc.). Era molto più libero un cittadino romano, teoricamente sotto una monarchia assoluta, che un cittadino sovietico, teoricamente vivente in una Repubblica. E se i barbari cercavano di penetrare nell’Impero Romano, e non di fuggirne, è perché si verificò lo stesso fenomeno che, secoli dopo, ha spinto i tedeschi dell’Est a cercare di andare all’Ovest, a rischio della vita.
Roma non ebbe mai la necessità di soffocare la sperimentazione e il dissenso. La prima perché era molto rara (ma non del tutto assente, si pensi a Plinio il Vecchio) e il secondo perché inesistente. Si era più pronti ad assassinare l’imperatore che a cercare di convincerlo di seguire una diversa politica. Sheidel immagina Roma come un impero del XIX Secolo, oscurantista per giunta, mentre non era né l’uno né l’altro. La sua scienza (per esempio nelle macchine per l’edilizia o per la guerra) era assolutamente alla punta del progresso.
Quelle di Scheidel sono fantasie spacciate per dati storici. Egli immagina inoltre che, scomparso l’Impero, le forze latenti del resto d’Europa siano state libere di combattersi e trovare compromessi. Non ha idea di quanto primitivi fossero i barbari, che infatti desideravano soltanto divenire come i romani, occupare le loro città, rendendosi padroni dell’esistente, non portando una forma nuova di civiltà. Di cui non avevano e non potevano avere la minima idea. La nostalgia dell’Impero Romano è stata una costante dell’Europa fino agli albori del Novecento. Insomma, a mio parere, il prof. Scheidel ha totalmente frainteso il mondo romano.
Ma ora facciamo l’ipotesi che l’Impero non fosse caduto e fosse durato fino ai nostri giorni. Per far questo, esso avrebbe dovuto emendarsi e migliorarsi, soprattutto in campo fiscale e militare. Sopravvivendo, esso avrebbe garantito ben più di ciò che cita Scheidel. Ecco una lista sintetica: l’Europa Unita; un’unica lingua, il latino; la separazione tra Stato e Religione; la laicità della scuola; la mancanza di razzismo; un sistema giudiziario di gran lunga superiore a quelli barbarici o medioevali; il progresso della scienza che nessuna Chiesa avrebbe intralciato; una grande potenza militare sostanzialmente pacifica, prova ne sia che già Adriano (se non mi sbaglio) decretò che non si dovevano annettere più altri territori, perché l’Impero era già abbastanza grande. Quanto all’incremento dei commerci di cui parla Scheidel, è una baggianata. Roma commerciava con la Gallia prima ancora di invaderla, figuriamoci dopo. Se i rapporti con i germani furono più difficili, questo avvenne a causa della loro difficile integrazione nell’Impero (in cui ebbero un totale successo i Galli e gli Iberici).
La vita era così prevedibile e calma (la famosa pax romana) che l’Impero, dopo la sua caduta, fu rimpianto per secoli. E i dotti continuarono a parlare e scrivere in latino ancora per una dozzina di secoli: diversamente le università non avrebbero potuto essere internazionali.
Chi sostiene questo genere di tesi lo fa per attirare l’attenzione, pronunciando una sonora bestemmia culturale, pur di vendere qualche copia in più. Come qualcuno che cercasse di dimostrare che la Regina Elisabetta era in realtà un’incontenibile ninfomane. Spazzatura, non storiografia.

Teologia e sociologia di Gianni Pardo

In un articolo tanto breve quanto pregevole il Direttore Marino Longoni scrive che L’Europa «non è più un punto di riferimento politico e morale. Non è più un modello». Il mondo rigetta «il suo individualismo selvaggio, il nichilismo, la crisi demografica e lo sfascio delle famiglie, le derive woke e Lgbt». Gli altri Paesi «intuiscono la fragilità, l’inconsistenza, di un tessuto sociale ormai privo di valori assoluti». Tanto che – citando il prof Niall Ferguson dell’università di Harvard – Longoni conclude che non si può fondare una società stabile sull’ateismo.
La tesi è interessante e, probabilmente, ben fondata. Ma se ne può dare una diversa interpretazione. Gli altri Paesi hanno ragione quando intuiscono la nostra assenza di valori assoluti. Ma non è detto che i loro valori assoluti, anche se li tengono insieme e li rendono più pugnaci, siano migliori del nostro disorientamento. Fra i loro valori assoluti c’è spesso la totale sottomissione a Allah, nella personale interpretazione di coloro che li governano come una mandria di bestiame, mentre noi, nel nostro anarchismo, consideriamo i nostri governanti come noi, al nostro servizio per giunta, e non appena non ci piacciono pi+ù li mandiamo a casa, arrivando a prefere Eden a Churchill, subito dopo che è stata vinta la guerra. Inoltre, mentre la maggior parte di loro venera l’Uomo della Provvidenza, il dittatore di cui un Fato benefico ha valuto far dono alla nazione, l’europeo occidentale non crede alla Provviedenza e ancor meno all’Uomo della Provvidenza. La Russia di Putin sogna di rivalutare Stalin, mondandolo del peccatuccio di avere tormentato e ucciso molti milioni di uomini, gli italiani non perdonano a Mussolini l’assassinio di Matteotti, in cui oprobabilmente non ebbe parte e di cui punì, se non ricordo male, i colpevoli. Il nostro «individualismo selvaggio, la crisi demografica», ecc. potrebbero non essere un decadimento, ma il raggiungimento dell’età adulta, col recepimento dell’annuncio nietzschiano di oltre un secolo fa: «Dio è morto». E se Dio è morto, come possiamo credere in lui, come possiamo appoggiarci a lui? E se non possiamo credere in un Ente metafisico, come potrebbe credere a qualcuno che è umano come noi, e forse peggiore di noi? Molti musulmani, in Turchia, dopo ottant’anni di kemalismo, hanno creduto di liberarsi dalla decadenza occidentale. Ora le ultime elesioni mostrano che neanche Erdogan, agli occhi dei turchi, ha diritto al titolo di Uomo della Provvidenza. Forse è l’Uomo dell’Inflazione senza Freni.
Da un lato dunque, col rinnegamento del padre, abbiamo raggiunto l’età adulta, dall’altro non siamo abbastanza maturi per adattarci ad un mondo senza Dio. O – se ci adattiamo – lo facciamo comprendendo che il nostro è un mondo senza bussola e senza speranza. L’individualismo non è selvaggio. I selvaggi fanno sempre gruppo. L’individualista è colui che ha perso i valori della comunità ed ha accettato di essere assolutamente solo sulla Terra, e per giunta molto temporaneamente. La stessa coscienza della morte, e dell’assenza di un al di là, rende l’uomo pragmatico. Se il mondo è scombinato, se gli uomini sono disorientati, insomma se la vita è assurda, che senso ha sacrificarsi per avere figli? Se non ho figli l’umanità potrebbe estinguersi. Ma che me ne importa, se si estingue? E comunque, avendo figli, gli faccio un favore o gli impongo l’insopportabile fardello di una vita in cui la maggior parte è infelice?
. Lo stesso per lo sfascio delle famiglie: non c’è più un’autorità metafisica che le tenga insieme, e i ragazzi sin dai quattordici anni vogliono essere padroni del loro destino. Anche se è per drogarsi o divenire etilisti. Loro non intendono obbedire ai genitori, i genitori non sentono il dovere/diritto di educarli, e la società va un po’ alla deriva. Ma chi dice che questa deriva non sia l’unica conclusione filosofica da trarre da una società senza trascendenza? Il soprannaturale che tiene insieme i popoli non evoluti è un mito: non è comunque un progresso essersi liberati da un mito?

Teologia e sociologia

di Gianni Pardo

In un articolo tanto breve quanto pregevole il Direttore Marino Longoni scrive che L’Europa «non è più un punto di riferimento politico e morale. Non è più un modello». Il mondo rigetta «il suo individualismo selvaggio, il nichilismo, la crisi demografica e lo sfascio delle famiglie, le derive woke e Lgbt». Gli altri Paesi «intuiscono la fragilità, l’inconsistenza, di un tessuto sociale ormai privo di valori assoluti». Tanto che – citando il prof Niall Ferguson dell’università di Harvard – Longoni conclude che non si può fondare una società stabile sull’ateismo.
La tesi è interessante e, probabilmente, ben fondata. Ma se ne può dare una diversa interpretazione. Gli altri Paesi hanno ragione quando intuiscono la nostra assenza di valori assoluti. Ma non è detto che i loro valori assoluti, anche se li tengono insieme e li rendono più pugnaci, siano migliori del nostro disorientamento. Fra i loro valori assoluti c’è spesso la totale sottomissione a Allah, nella personale interpretazione di coloro che li governano come una mandria di bestiame, mentre noi, nel nostro anarchismo, consideriamo i nostri governanti come noi, al nostro servizio per giunta, e non appena non ci piacciono pi+ù li mandiamo a casa, arrivando a prefere Eden a Churchill, subito dopo che è stata vinta la guerra. Inoltre, mentre la maggior parte di loro venera l’Uomo della Provvidenza, il dittatore di cui un Fato benefico ha valuto far dono alla nazione, l’europeo occidentale non crede alla Provviedenza e ancor meno all’Uomo della Provvidenza. La Russia di Putin sogna di rivalutare Stalin, mondandolo del peccatuccio di avere tormentato e ucciso molti milioni di uomini, gli italiani non perdonano a Mussolini l’assassinio di Matteotti, in cui oprobabilmente non ebbe parte e di cui punì, se non ricordo male, i colpevoli. Il nostro «individualismo selvaggio, la crisi demografica», ecc. potrebbero non essere un decadimento, ma il raggiungimento dell’età adulta, col recepimento dell’annuncio nietzschiano di oltre un secolo fa: «Dio è morto». E se Dio è morto, come possiamo credere in lui, come possiamo appoggiarci a lui? E se non possiamo credere in un Ente metafisico, come potrebbe credere a qualcuno che è umano come noi, e forse peggiore di noi? Molti musulmani, in Turchia, dopo ottant’anni di kemalismo, hanno creduto di liberarsi dalla decadenza occidentale. Ora le ultime elesioni mostrano che neanche Erdogan, agli occhi dei turchi, ha diritto al titolo di Uomo della Provvidenza. Forse è l’Uomo dell’Inflazione senza Freni.
Da un lato dunque, col rinnegamento del padre, abbiamo raggiunto l’età adulta, dall’altro non siamo abbastanza maturi per adattarci ad un mondo senza Dio. O – se ci adattiamo – lo facciamo comprendendo che il nostro è un mondo senza bussola e senza speranza. L’individualismo non è selvaggio. I selvaggi fanno sempre gruppo. L’individualista è colui che ha perso i valori della comunità ed ha accettato di essere assolutamente solo sulla Terra, e per giunta molto temporaneamente. La stessa coscienza della morte, e dell’assenza di un al di là, rende l’uomo pragmatico. Se il mondo è scombinato, se gli uomini sono disorientati, insomma se la vita è assurda, che senso ha sacrificarsi per avere figli? Se non ho figli l’umanità potrebbe estinguersi. Ma che me ne importa, se si estingue? E comunque, avendo figli, gli faccio un favore o gli impongo l’insopportabile fardello di una vita in cui la maggior parte è infelice?
. Lo stesso per lo sfascio delle famiglie: non c’è più un’autorità metafisica che le tenga insieme, e i ragazzi sin dai quattordici anni vogliono essere padroni del loro destino. Anche se è per drogarsi o divenire etilisti. Loro non intendono obbedire ai genitori, i genitori non sentono il dovere/diritto di educarli, e la società va un po’ alla deriva. Ma chi dice che questa deriva non sia l’unica conclusione filosofica da trarre da una società senza trascendenza? Il soprannaturale che tiene insieme i popoli non evoluti è un mito: non è comunque un progresso essersi liberati da un mito?

UNA CLASSIFICA DELLE NAZIONI di Gianni Pardo

Le nazioni del mondo non hanno tutte lo stesso peso, perché differiscono per livello economico, scientifico, tecnologico; per numero di abitanti e per spirito combattivo; per cultura, per tradizioni, ed anche per alleanze. Sicché per comprenderle, accanto ad una fittizia uguaglianza, si deve stilare una diversa classifica che tenga conto almeno degli elementi principali sopra elencati.
Uno degli elementi distintivi, fra le potenze, è il numero di abita. Infatti, se il Paese è popoloso, può mettere in campo molti uomini; se non lo è può avere delle serie difficoltà, in caso di conflitto. Non stupisce che Israele imponga il servizio militare non solo agli uomini ma anche alle donne. E non per un anno ma, credo di ricordare, per due o tre. Per non parlare dei continui aggiornamenti in tutti gli anni seguenti. Per questo Israele, malgrado i suoi nove milioni di abitanti, ha uno degli eserciti più forti e pronti al combattimento del mondo.
Ma avere molti uomini non basta, bisogna che essi dispongano di un armamento moderno, almeno all’altezza di quello dei possibili nemici. E qui cominciano i problemi. Un tempo un buon fabbro era capace di fabbricare la maggior parte delle armi, oggi le armi sono così complicate e così costose da rappresentare una branca a parte dell’economia. Non soltanto un buon fabbro non saprebbe dove mettere le mani, ma persino una moderna industria, chiamata a produrre un’arma elementare come una pistola, si arrenderebbe dinanzi alle difficoltà. Prova ne sia che la storia delle armi da fuoco è costellata di incidenti mortali, soprattutto al suo inizio. Poteva darsi che il cannone sparasse e facesse strage dei nemici, ma poteva anche darsi che, invece di partire la palla, scoppiasse l’intero cannone facendo ancora una volta una strage, ma di quelli che lo accudivano. E, quanto alle pistole, qualche anno fa la polizia di New York indisse un concorso internazionale, e nel Paese della Colt, della Smith & Wesson, della Glock e della Browning, vinse la Beretta. Ma è vero che la Beretta costruisce armi da fuoco dal 1500.
La fabbrica di armi è un sistema di tale alta tecnologia che possiamo così distinguere i Paesi. Ci sono quelli che non producono affatto armi, e le comprano. Ci sono quelli che sono arrivati a produrre armi leggere, ma non armi pesanti. Infine alcuni arrivano a costruire armi pesanti, come i carri armati, ma sono pochi. Stupisce infatti che li produca anche Israele (i famosi Merkava) ma ciò è avvenuto perché Israele, mentre è pieno di tecnici altamente specializzati, è anche molto preoccupato per la sua sicurezza. Dunque non vuole dipendere da nessuno per la fornitura della più importante arma di un moderno esercito e delle sue parti di ricambio. E tuttavia la stessa Israele non arriva all’Alta Società della produzione di armi: quella degli aerei da guerra. Quelli anche Israele è costretta a comprarli. Tanto costosa e complessa ne è la produzione. L’Europa Occidentale è riuscita a produrre un rispettabile aereo da caccia, l’Eurofighter ma, per portare a termine l’impresa, hanno dovuto consociarsi in quattro: Inghilterra, Germania, Italia e Spagna. Dopo che un pugno di Spitfire aveva vinto la guerra contro la Luftwaffe.
Nella storia dell’aeronautica ci sono anche delle nobildonne decadute. La principale di queste tristi signore è l’Italia, che per prima utilizzò l’arma aerea e si rese conto (Giulio Douhet) della sua importanza bellica. Fra le prime (in particolare insieme con la Francia) produsse aeroplani, ottenne perfino dei record, e infine si arrese.
Un posto a parte in questo campo merita la Russia, che da sempre ha preteso di stare alla pari con le massime potenze del mondo, mentre di fatto ha sempre avuto due palle al piede che nessuno può eliminare: è un Paese povero e la sua tecnologia non è all’altezza di quella occidentale. Dunque produce aeroplani da guerra, ed anche aeroplani passeggeri, ma non è che abbia chissà che successo nelle fiere internazionali. Gli occidentali sono molto preoccupati, quando salgono su un aereo passeggeri russo. La sua produzione bellica non è di alta qualità. Del resto, se non lo è nessun prodotto non bellico – come si nota dall’assenza totale del Made in Russia nei nostri supermercati – come potrebbe poi esserlo il materiale militare?
Infatti, anche se la gente non lo sa, esistono esposizioni e dimostrazioni, in cui i grandi Stati produttori di armi le espongono e le fanno agire in una simulazione di combattimento: nella speranza di venderli. Fu in una di queste che si schiantò al suolo il famoso Konkordosky che la Russia aveva costruito per fare concorrenza al Concorde franco-inglese. E ovviamente tutti i tecnici osservano con estrema attenzione tutte le guerre, perché quelle sono il migliore e incontestabile test di efficacia.
Il caso della Russia è particolarmente triste, se pensiamo che il suo pil pro-capite è meno della metà di quello italiano, che pure non è alto né come quello americano né come quello svizzero, e non arriva neppure al livello di quello francese. Dunque quando la Russia produce uno sforzo di guerra lo fa imponendo al suo popolo una pressione spaventosa: basti pensare che la spesa per armamenti è il 30% del pil (noi nemmeno il 2%) e tuttavia rimane dieci volte inferiore a quella americana. Una pressione che solo una dittatura feroce può mantenere. Ma che non reggerebbe al confronto se si scontrasse con una potenza occidentale come la Francia.
Solo che in questo caso, agli occhi degli ingenui, le parole e le minacce fanno dimenticare le realtà sottostanti.

IL FASCINO DI CIO’ CHE È STRAMALEDETTO di Gianni Pardo

Se ci fossero diecimila persone che sostengono enormità, od anche se fossero venti o trentamila, poco male. Purtroppo nella società contemporanea si potrebbe dire che c’è una percentuale della popolazione (all’incirca il 30/40%) che, ogni volta che c’è una scelta da fare, fa invariabilmente quella sbagliata. E ciò ben sapendo che la maggioranza la considera sbagliata: ma quello è un motivo in più per adottarla. Vale anche per l’astensione dal voto: molti pensano che bisognerebbe sfasciare tutto e ricominciare da capo. Come se fosse possibile. Comunque l’odio per chiunque comandi annebbia il cervello di molti e dà da mangiare a comici come Maurizio Crozza. Il fenomeno è talmente imponente che merita riflessione. E ciò che bisogna mettere bene in chiaro, sin da principio, è che esso riguarda da un lato l’umanità e dall’altro il singolo.
Nei XX Secolo questo atteggiamento ha avuto un senso, perché c’era una nuova religione, il marxismo, che ne dava una spiegazione. L’umanità era oppressa e sarebbe stata felice dopo la crisi del capitalismo e il trionfo della rivoluzione proletaria. Finché è stata viva l’utopia comunista, gli ingenui e gli stupidi hanno potuto credere che, buttando giù la Repubblica Italiana e trasformandola in Repubblica Democratica Italiana di obbedienza moscovita, tutto sarebbe andato per il meglio. Andare sempre e comunque contro il potere significava favorire l’ultima crisi del capitalismo e anticipare la rivoluzione proletaria. Oggi di tutto questo si sorride appena, dopo l’implosione dell’Unione Sovietica, e tuttavia come si spiega la persistenza di questo atteggiamento? Innanzi tutto con la storia. In Francia il popolo era sinceramente monarchico e tuttavia nel Seicento c’è stata la Fronde. Nel Settecento cattolico c’è stato l’Illuminismo. Nel periodo rivoluzionario c’è stata la Vandea. E si potrebbero trovare molti altri esempi. Il popolo si dichiara felice solo nei Paesi in cui, dichiarandosi infelice, si va in galera.
In realtà il popolo è sempre insoddisfatto ed arriva ad ipotizzare di avere un nemico che trama contro di lui. Tanto che, se lo potesse eliminare, tutto poi andrebbe bene. I governi, visto che trovano conveniente deviare su questo nemico immaginario l’animosità che già si manifesta contro di loro, incoraggiano questa credenza. E questo sistema è particolarmente caro alle dittature. Questo spiega il nazionalismo acceso, l’antisemitismo, il razzismo. Il sistema funziona tanto bene da far sì che il popolo applauda perfino una dichiarazione di guerra. Magari poi perdendola rovinosamente (caso emblematico i palestinesi e Israele). Lo stesso Hitler in questo campo merita una citazione. Sapete perché diede a credere che la Germania aggrediva la Russia? Perché non aveva il Lebensraum necessario, lo spazio vitale. Viene da sorridere ma è proprio così. Ancora oggi la Turchia geme sotto una dittatura perché Erdogan fa finta di lottare contro il suo nemico Fethullah Gülen, colpevole di ogni malefatta. Avete mai sentito parlare di lui? No. E tuttavia da solo – secondo Erdogan – Gülen può fare la rivoluzione in Turchia e rovesciarlo.
Il caso più interessante è tuttavia il modo come questo fenomeno si configura a livello individuale: il conflitto interno viene proiettato all’esterno. Il singolo disadattato – quello che da ragazzo va male a scuola, poi non riesce ad imparare un mestiere, poi è disoccupato, e infine non ha nessun tipo di successo – ha seri motivi per considerarsi un fallito. Ma arrivare a questa coscienza richiede molto coraggio. Dunque per le persone più superficiali e più disposte ad auto-ingannarsi esiste la soluzione del nemico esterno. «Non sono io che non riesco ad avere rapporti facili col resto dell’umanità, è il resto dell’umanità che sembra avercela con me. Non sono io che non ho cercato o trovato un lavoro, è che non mi è stato offerto il lavoro che avrei volentieri esercitato. L’amore? Sa Iddio se ci ho provato. Ma tutte le donne (o corrispondentemente tutti gli uomini) sono egoiste, esigenti e, per dirla in una parola, puttane (per gli uomini: farabutti, delinquenti, prevaricatori)». E via di questo passo. Sicché in conclusione questi uomini sono giustificati se ce l’hanno con l’altro sesso, con l’umanità e, per cominciare, con i concittadini. Sono contro le banche, perché le banche sono il tempio del denaro che loro non hanno. Sono contro le scuole, colpevoli di averli dichiarati inferiori. Sono contro le automobili che loro non possono permettersi, e all’occasione le bruciano nelle manifestazioni di protesta. Questi però sono piccoli sfoghi. Il nemico centrale è l’istituzione che guida la collettività e la rappresenta: lo Stato. E allora cosa c’è di meglio che attaccare la polizia, che rappresenta e difende quello Stato? L’intera umanità è coalizzata contro questo singolo, e questo singolo si sente un eroe mentre attacca lo Stato. Lo Stato lo ha schiacciato, e lui cerca di schiacciare un poliziotto. E per farlo chiama dei falliti come lui a dargli una mano. In democrazia alcuni la chiamano libera manifestazione del pensiero.
Il violento di strada è un fallito che esorcizza la sua tragedia intima esternandola e trasformandola in una vittoria sopra la collettività. Ma il fallimento, se così vogliamo chiamarlo, non si può esorcizzare. Si smette sul serio di essere inferiori quando si riesce a capire che si è meno dotati, e che l’unica soluzione per galleggiare è essere molto amabili con tutti.
Se invece ci si dà al rancore, alla depressione, al malessere personale che si scarica sul sociale, non se ne esce. Si rimane al bambino che pesta i piedi, si rotola per terra, e si rende odioso. Ma soggettivamente soffre sul serio.