VINCENT di Anna Murabito

Note irrituali sulla vita e le opere di Vincent van Gogh

 

Il mito romantico di Vincent van Gogh – malato mentale e genio incompreso – rischia di sopraffare l’attenzione che meritano le sue opere. Soprattutto crea l’illusorio rapporto causale tra follia e produzione artistica.  

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Van Gogh è un argomento inesauribile. La sua è una di quelle grandi storie che fanno scorrere fiumi di parole e migliaia di metri di pellicola. Saggi, articoli, recensioni critiche, video, documentari, film di grande fama sono stati dedicati a questo personaggio fuori dal comune. “Una specie di gigante ebbro, un genio folle e terribile, spesso sublime, qualche volta grottesco, quasi sempre svelante qualcosa di patologico…” come lo definì il critico francese Albert Aurier, suo contemporaneo.

Ci sono uomini sconfitti dalla loro stessa passione, abnorme ed eroica. Vincent Willem van Gogh (Zundert 1853 – Auvers-sur-Oise 1890) visse solo trentasette anni e dipinse quasi 900 tele, tutte negli ultimi sette anni della sua vita. Oggi il suo nome è conosciuto nel mondo intero e alcuni suoi dipinti sono stati tra i più pagati di tutti i tempi. Ma finché fu vivo nessuno o quasi si accorse di lui.

Anche se visse nell’‘800, nell’immaginario generale Van Gogh è percepito come un pittore moderno, quello che, insieme con Pablo Picasso, ha influenzato profondamente l’arte del Ventesimo Secolo. E tuttavia i due artisti sono agli antipodi. Picasso è freddo e vincente: e del resto la sua innovazione ha una matrice intellettuale. Van Gogh è un ipersensibile che si avvale del suo retroterra psicologico per creare una pittura diretta ed emotiva. Indifesa, nella sua nudità: come una ferita viva che è persino imbarazzante scoprire. Tanto che per i suoi dipinti si fa riferimento ai termini della psicanalisi: io, inconscio, angoscia.

La sua cifra è la verità senza abbellimenti e senza finzioni e forse da questo deriva la potenza del suo messaggio: penetrante e sempre riconoscibile. Davanti ai suoi dipinti parlanti da un lato si vorrebbe condividere lo sgomento e la meraviglia con il maggior numero di spettatori possibile, dall’altro si vorrebbe proteggere l’artista, evitare i contatti tiepidi e gli sguardi distratti della gente qualunque. Sentimento simile a quello che si prova ascoltando Čajkovskij e, mutatis mutandis, anche Brel: li si vorrebbe pregare di smetterla di gridare davanti a tutti.

Forse perché si è parlato tanto di Van Gogh, paradossalmente non è facile conoscerlo. Ipotesi, teorie, leggende, interpretazioni di ogni genere sono un materiale ingombrante che ha finito con l’incanalare l’attenzione prevalentemente sulla sua vita, assegnando alla sua grande pittura il ruolo di inevitabile conseguenza di un dramma esistenziale. Insomma la sua tormentata biografia viene messa in stretta relazione con la  produzione artistica. Questo  rapporto è in buona misura arbitrario.

La sua vita, conclusa con un torbido suicidio, si può riassumere nel racconto di una energia divorante, di un ardore ferito e deluso. Può interessare il  romanziere, lo psicologo, lo psichiatra e perfino il filologo: le seicento lettere a Theo, il fratello, sono un materiale ricchissimo. Tuttavia non si può affermare che essa abbia determinato un artista unico ed irripetibile: estraneo non solo agli schemi accademici, ma agli schemi tout court.   

Anche per questo non serve esplorare nel dettaglio la sua biografia: conosciamo le sue convulse vicissitudini soltanto perché Vincent è stato un grande artista. Le frustrazioni di una ricerca inascoltata (di Dio, dell’amore…) le paure, la pena senza perché con cui definiamo la condizione umana, fanno parte dell’esperienza degli uomini comuni e la maggior parte delle volte rimangono ignorate. Le risse, le droghe, l’alcool, alimentano ogni giorno la cronaca nera delle aree urbane ma non formano artisti: logorano le esistenze; non esaltano l’essere umano: ne segnano il degrado.  E la pazzia conclamata, poi, rappresenta la perdita di sé, e quindi la perdita massima: è difficile che da un “meno” così mutilante nasca un “più” così prodigioso. I manicomi saranno pieni di quadri e disegni dei pazienti; questi quadri esprimeranno certo angoscia, violenza e disperazione; avranno forse quel valore terapeutico e catartico sperato dai medici, ma non saranno per ciò stesso opere d’arte.

 Quanto a quel “dérèglement des sens” che Rimbaud cercava di sperimentare con l’aiuto di sostanze esterne, il povero Vincent lo subiva suo malgrado dall’interno. Lui che provava orrore per le crisi allucinatorie che sentiva venire. Ne avrebbe fatto volentieri a meno. Non dipingeva certo durante le crisi, caratterizzate, anche prima del culmine, da atti di autolesionismo, quali bere i colori o la trementina. E non si può dire che tracce della sua malattia mentale siano presenti in tutte le tele dello stesso periodo. Per esempio, i famosi iris (Iris) del giardino del manicomio di Saint-Rémy, non sono un dipinto drammatico o inquietante.

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Insomma non basta un temperamento ultrasensibile e appassionato, morboso e visionario fino allo scollamento dalla realtà, per “fabbricare” un artista. L’arte,  fiorita in un certo tempo e in un determinato territorio, ha delle cause che rimangono inconoscibili. Ed anche una fioritura individuale ed esplosiva come quella di Van Gogh appare misteriosa. Ma sarebbe stata misteriosa anche se egli fosse stato sano di mente.

Tra l’altro l’artista non ebbe una precoce vocazione pittorica. Sembra quasi che la pittura abbia preso il posto di quel misticismo maniacale, di quella frenesia religiosa in cui Vincent esercitò la sua energia e la sua coerenza durante la sua prima giovinezza. Le autorità ecclesiastiche, comprensibilmente allarmate, rifiutarono la sua figura di predicatore e di novello San Francesco: dormiva su un pagliericcio insieme ai minatori e tagliava i suoi abiti per farne bende per i feriti. Vincent abbandonò i suoi propositi ascetici e quel capitolo si concluse ma altri episodi di passione incontrollata ed atti di autolesionismo si susseguirono nella sua vita, indipendentemente dal suo amore per la pittura, non ancora esploso. Non solo è inverosimile che la malattia mentale abbia determinato la sua produzione artistica, ma non è andata neanche di pari passo con essa.

Lo stesso artista si esprime in termini molto pacati nei confronti della sua malattia: “…io non avrei precisamente scelto la follia, se c’era da scegliere, ma una volta che le cose stanno così, non vi si può sfuggire”. E mentre era in manicomio: Osservo negli altri che anch’essi durante le crisi percepiscono suoni e voci strane come me e vedono le cose trasformate. E questo mitiga l’orrore che conservavo delle crisi che ho avuto. Oso credere che una volta che si sa quello che si è, una volta che si ha coscienza del proprio stato e di poter essere soggetti a delle crisi, allora si può fare qualcosa per non essere sorpresi dall’angoscia e dal terrore. Quelli che sono in questo luogo da molti anni, a mio parere soffrono di un completo afflosciamento. Il mio lavoro mi preserverà in qualche misura da un tale pericolo.”.

Nei confronti dei medici mostrò apertura ed amicizia. Oltre al famoso dottor Gachet, Van Gogh fece il ritratto anche del giovane dottor Rey, che lo ebbe in cura dopo il taglio dell’orecchio. Lui stesso voleva essere ricoverato quando sentiva l’approssimarsi di una crisi. Siamo insomma ben lontani dal considerare la pazzia come una condizione esaltante e dall’avere nei confronti del manicomio gli atteggiamenti di ribellione e di disprezzo di certa corrente d’opinione contemporanea. Chi ha dimenticato: “Qualcuno volò sul nido del cuculo”?

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Forse si dovrebbe tentare di esaminare le sue opere indipendentemente dalla sua biografia. Come si fa con Saffo, con Lucrezio o con Bosch, autori a cui, per mancanza di notizie, ci accostiamo senza intermediari.

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Il primo contatto con Van Gogh lo ebbi da bambina. Mio padre portò a casa un calendario con le riproduzioni delle opere del pittore olandese. Lo sfogliai come un libro illustrato, come una favola nuova. “Era pazzo”, intervenne didatticamente il mio informato genitore, “si tagliò l’orecchio”. E, così dicendo, fece ruotare le tre dita della mano destra, nel gesto tipico: era un racconto  po’ truce, come alcune favole dei fratelli Grimm. Van Gogh, col suo strano nome, divenne una figura familiare; la storia era senza capo né coda ma mi piaceva la sua barba rossa e il suo cappello da spaventapasseri. Continuai a “riconoscerlo” nei vari volumi comprati nelle edicole, con descrizioni sommarie dei suoi dipinti (i veri e propri libri d’arte costavano troppo). Ma l’amore, quello che va oltre il gradimento e diventa unione, scoppiò ad Amsterdam. Quella volta, in una stanza appartata del museo che porta il suo nome, quasi al buio, erano esposti anche alcuni disegni di Vincent. Gli occhi dei suoi autoritratti mi inseguivano, mi imploravano di ascoltarlo, mi spiegavano la vita.

Solo dopo ho sentito l’esigenza di leggere notizie che riguardavano la sua vita. L‘approccio era stato quello giusto: quello che parte dalle opere di un artista, perché solo queste contano.

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Molte opere di Van Gogh sono variazioni sul tema dell’infelicità, della sconfitta, della frustrazione: e per questo, proprio perché l’artista ha la capacità di far pervenire il suo messaggio, esse comportano nello spettatore un forte impegno emotivo. Ci sono volte in cui il dolore, nella sindrome di Stendhal, prevale sul piacere: come quando si ascolta un brano di musica particolarmente coinvolgente.

Gli autoritratti furono i suoi soggetti preferiti, quelli che gli permisero di operare una approfondita indagine psicologica su sé stesso: “Si dice, ed io ne sono fermamente convinto, che sia molto difficile conoscere se stessi. Tuttavia, non è di certo più semplice fare il proprio ritratto”. Sono ben trentasette, da annoverare tra le sue opere più riuscite e sconvolgenti: l’artista è a tu per tu con sé stesso e col suo “male di vivere”. Con la parte più intima del suo io sconnesso e dolorante.

Ovunque l’artista si rappresenti, d’estate o d’inverno, la sua anima si porta dietro la stessa stagione di intemperie e di sgomento. Spesso l’atmosfera intorno a lui è mobile e ondeggiante come nel drammatico Autoritratto del Musée d’Orsay dove un turbine verdazzurro travolge l’aria intorno alla sua figura e invade i suoi stessi abiti.

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Qui sono i motivi astratti dello sfondo (ghirigori ed ondulazioni) a creare simbolicamente un mondo privo di requie come la tempesta in cui si muovono i lussuriosi di Dante. Vincent, rigido come un totem, sembra piantato nel centro di un universo ostile. Il viso ferino è scavato dall’ansia, contratto da rughe brutali. Gli occhi costringono lo spettatore ad un rapporto personale, obbligandolo quasi a scendere nell’abisso con lui. Non c’è posto per nessun sentimento che non sia violento e negativo.   

Nel famoso Autoritratto col cappello di paglia, il sole sembra avere asciugato il colore dei suoi occhi (che appaiono neri), insanguinato la bocca e l’orecchio visibile. La pelle ha la consistenza delle spighe e l’espressione è vagamente assente, propria di chi sta inseguendo pensieri remoti ed accaparranti. L’aria fuma intorno a lui, come esalando dai campi.

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Ha una camicia bianca e una cravatta azzurro chiaro ma, con il viso giallo canarino e i capelli ritti, sembra un uccello di palude spaventato.

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Gli occhi verdi spalancati, di una fissità angosciosa, continuano a chiedere risposte che non avranno.

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Un ritratto tra i più toccanti lo rappresenta composto e ordinato, quasi curato nell’aspetto. Sembra che cominci a respirare dopo una crisi d’asma, ma ha ancora nello sguardo implorante il ricordo di un orrore vissuto.

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Nella maggior parte degli autoritratti affiora un sentimento di inadeguatezza, una sorta di silenzio impietrito, una disperante solitudine. Si vede la pelle scorticata di chi conosce il sale e la nebbia dell’esistenza, la tristezza immensa di chi ha rinunciato a combattere ed ha coscienza della resa.

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Nella sua brevissima fioritura Van Gogh sperimentò diverse tecniche pittoriche ma tutti i dipinti si distinguono per il tratto forte, incisivo e riassuntivo. La vitalità e il dinamismo animano anche le nature morte, come ha detto qualcuno. Il movimento si accentua fino alla frenesia nei paesaggi degli ultimi anni, dove una realtà pulsante deborda negli aloni che enfatizzano il disegno, nei trattini concentrici che sottolineano i contorni della luce. Altri tratti paralleli sono solchi, incisioni,  ferite che tagliano e costruiscono l’immagine.  La terra intera sembra soffrire. Gli ulivi e i cipressi, come in fiamme, si contorcono e si dimenano. Il cielo è attraversato da chimere ondulate, ciascuna simile a un labirinto. Le linee oblique sottolineano il disequilibrio, le tinte del verde scuro e del blu fondo indicano lo sgomento di fronte alla battaglia che stravolge la notte.

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Una sorta di agitazione e di ambiguità è riscontrabile anche nei dipinti considerati “sereni”. Nella famosa Terrazza del caffè la sera, Place du Forum, Arles, gli astri che si allargano come fiori di luce sembrano più una deformazione legata alle inquietudini del pittore che una visione sognante. I colori violenti introducono note di stridore.

gogh32  Anche la nota stanza di Arles (La camera di Vincent ad Arles) è sbilenca e arbitraria, con il pavimento che scivola verso lo spettatore, i quadri obliqui alle pareti, l’assenza di una ragionevole prospettiva. E non certo per ignoranza delle sue regole.

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Questi anni sono segnati da un’attività febbrile. L’artista si affrettava, come spinto da un’urgenza improrogabile. Realizzava fino a tre tele la settimana. È inevitabile il ricordo di Guy de Maupassant: anche lo scrittore normanno si affrettava a scrivere perché sentiva che da lì a poco la pazzia, ereditaria nella sua famiglia, lo avrebbe annichilito.

La provincia francese statica e sonnolenta si è trasformata per Vincent in una fermata all’inferno. Lui stesso disse che alcuni suoi quadri erano un grido d’angoscia. Inutile didascalia.

Nell’ultimo periodo della sua vita i titoli dei suoi dipinti ci riportano al Nord. Tra questi La chiesa di Auvers, nella sua consistenza molle e gelatinosa, sembra esitare sulla collina anch’essa malferma. I colori stravolti ed il silenzio la rendono aliena ed inospitale. Non si prega in questa chiesa, quasi sinistra. Le sue finestre sono buie, e non c’è nessuno se non una donna in un angolo dello spazio esterno. Perfino i fiorellini stereotipati sembrano una decorazione dimenticata. I sentieri, segnati da linguette parallele tormentose e svianti, assomigliano a vie di fuga. Il corruccio del cielo si tocca nelle pennellate in rilievo.

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Il suo tragico disagio, implacabile come la Morte nella leggenda di Samarcanda, ha seguito l’artista per mezza Francia. Ed affiora anche in un altro dipinto realizzato – come La chiesa di Auvers – qualche settimana prima del suo suicidio: Casolari con il tetto di paglia a Cordeville.

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Qui il vento agita il cielo e gli alberi, i tetti ondulati sembrano muoversi, i colori lividi hanno dimenticato il sole. D’altra parte, a che serve il sole se i fiori del mandorlo sono destinati a cadere?

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Nessun dipinto come Campo di grano con corvi identifica Van Gogh.

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Il soggetto è del tutto riconoscibile ma esprime una realtà astratta, un sogno opprimente. Il cielo basso toglie il respiro; la distesa di grano è  un impasto scabro e accidentato; sentieri tracciati a caso non conducono da nessuna parte. La violenza del blu e del giallo introduce una disarmonia tangibile. L’intero dipinto è la rappresentazione di un’attesa funesta (sottolineata dal volo dei corvi), il sentimento di una catastrofe imminente, ciò che viene indicato col termine “angoscia”. C’è la potenza del Fato di Omero e le paure dell’uomo di tutti i tempi: dall’uomo delle caverne che vede sparire il sole all’uomo contemporaneo, confinato nella solitudine del suo io. Un sentimento di mancanza di scampo domina la scena. Nell’immobilità dell’attesa il dipinto esprime tuttavia un ritmo concitato. Le pennellate convulse vanno di pari passo con i tonfi del cuore.

Il giallo e il blu sono i colori preferiti da Van Gogh. Forse gli riuscì intollerabile l’idea che la morte allunghi le sue mani anche sullo splendore del cielo e sulla promessa di un campo di grano.

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Van Gogh modifica la realtà in funzione delle sue rappresentazioni interiori. La deformazione, quindi, non risponde ad un dettato intellettuale, come per i cubisti: è una necessità rappresentativa. Lo spettatore è costretto a partecipare agli stati d’animo dell’artista nello stesso momento in cui guarda per la prima volta i suoi dipinti. Emozione e comprensione, i due poli di cui parlava Gauguin, qui coincidono in una sorta di folgorazione visiva – perfettamente identificabile – racchiusa in un unico messaggio artistico e psicologico. Non sono la sfera, il cubo e il cilindro a dominare la scena, ma le pulsioni laceranti di Vincent, il suo sgomento di fronte alla solitudine e alla morte. La consapevolezza bruciante della vanità degli sforzi, la paura dei fantasmi scuri che attraversano la mente, che si chiamino pazzia o condizione umana.

Si firmava Vincent. La sua leggenda ha colpito a tal punto l’immaginario collettivo che molti lo chiamano così ancora oggi, quasi a volere esibire una usurpata familiarità col suo mondo colorato e ansante, imperfetto e pericoloso. La fama capillare e irrispettosa legata al suo nome arriva fino ai gadget. Ma il suo messaggio, “umano, troppo umano”, supportato da un’arte eccelsa, è fatto per essere capito dagli uomini più dell’astrazione delle “Demoiselles d’Avignon” di Picasso.  In questa capacità di comunicazione è la grandezza inarrivabile di Vincent Van Gogh, poeta del dolore, povero gigante ferito a morte.

Anna Murabito     annamurabito2@gmail.com 

CÉZANNE di Anna Murabito

Nell’elenco dei pittori felici e infelici, Paul Cézanne (Aix-en-Provence 1839-1906) è nella colonna degli infelici. Questa collocazione dovrebbe essere una sorta di garanzia: il dolore è il retroterra di tanta parte della produzione artistica. E invece per Cézanne le cose si complicano. La sua infelicità è diversa da quella inerme e dolente di Utrillo; da quella bruciante di Van Gogh; da quella implacabile e astratta di Mahler. La sua sofferenza è murata nel suo io, è aspra, incattivita, rude. È “intransitiva”, come certi verbi. Il male di vivere del pittore non diventa tramite e non apre un varco sulla condizione umana.

Cézanne è misterioso, a volte oscuro. Ho letto che quella delle sue prime opere è “una bellezza difficile”. E l’aggettivo “difficile” compare in più di una recensione, non sempre riferito alle prime opere. Quale che sia il motivo, non si riesce a trovare un’immediata consonanza con molti dei suoi dipinti. Le riproduzioni degli Impressionisti sono arrivate in tutto il mondo, tanto è chiaro e lineare il loro messaggio, e le copie delle Madonne di Raffaello erano presenti nei “capezzali” della stanza da letto della gente umile, quando magari quella stanza era l’unica della casa. Invece in giro non si vedono molte riproduzioni di Cézanne. E ciò mentre gli interventi critici e le monografie su questo autore si sprecanonon c’è collezione di libri d’arte che non comprenda un volume a lui dedicato. A detta degli esperti è un grande. Ma forse la sua grandezza è stata misurata non col metro dell’emozione ma con quello del valore storico e culturale della sua opera.

Cézanne è l’anticipatore del cubismo e della pittura astratta. E con lui comincia quel progressivo allontanamento degli artisti dal grande pubblico che ha determinato uno dei tanti fraintendimenti del Novecento: l’arte come pratica esoterica riservata agli iniziati. Che è stato un modo erudito di assassinarla. Non può essere che Šostakovič sia un grande compositore, se nessuno fischietta una sua aria. A parte il famoso valzer, che è poca cosa nella sua vastissima produzione. Può darsi che come compositore Šostakovič sia più sapiente di Verdi, e sicuramente lo è stato come sinfonista, ma il pubblico che assisteva alla prima del Nabucco si innamorò di “Va’ pensiero” e cominciò subito a cantare quel motivo così orecchiabile e colmo di pathos che a più riprese si è pensato di utilizzarlo come inno nazionale. Cosa sicuramente improponibile con una sinfonia di Šostakovič.  Čajkovskij è eccessivo, enfatico, a volte retorico, ma ha creato melodie immortali. Lo stesso inno nazionale della Russia Sovietica era di una bellezza così entusiasmante che un liberale occidentale poteva per un momento essere tentato dal comunismo.

L’approvazione dei critici e dei filologi non pesa molto. Il capolavoro non è definito né dal consenso dei critici, né dal consenso popolare. È definito dalla presenza di ambedue, come nel caso dell’Iliade e dell’Odissea. L’opera d’arte “astrusa” non andrà mai molto lontano. La bellezza “difficile” rimarrà confinata nelle pagine dei libri o nelle colte dispute degli esperti. Troppa gente non è riuscita a leggere Joyce.

Essendo l’antesignano della pittura moderna, Cézanne si è collocato in un territorio di confine. A questo si deve forse quel disorientamento che coglie esaminando le sue opere. C’è in esse l’eterogeneità di stili e di intenti tipica di chi ancora cerca e sperimenta, tanto che lo sforzo di innovazione fa passare la sua poetica in secondo piano. I dipinti corrispondono più ad un intento programmatico che a uno stato d’animo, se si esclude il desiderio di isolamento conseguenza del suo oscuro malessere esistenziale.

La biografia di Cézanne è solo apparentemente movimentata dai frequenti viaggi. In effetti è la storia di infiniti rimbalzi. Dalla Provenza si spostò molte volte per soggiornare a Parigi, a Pontoise e in altre località della Francia ma sempre ritornò in Provenza: il suo rifugio, la sua unica dimensione di lupo solitario. Non sono chiari i motivi del suo disagio. Non conobbe mai le ristrettezze economiche (il padre addirittura rilevò una banca fallita), non ebbe mai la preoccupazione di dover vendere i suoi quadri per mangiare, fece studi classici regolari, visse con Émile Zola un sodalizio (durato trent’anni) appagante sul piano affettivo e culturale, nonostante la delusione della fine. Tutti i biografi parlano di un’adolescenza felice, libera e appassionata tra gite all’aperto e scorribande – anche nel mondo della poesia – insieme all’amico Zola e a Jean-Baptiste Baille. Tra una carriera di avvocato al servizio delle attività di famiglia e i progetti di pittura, poté scegliere questi ultimi con relativa tranquillità. Ebbe contrasti col padre, è vero, ma quale padre borghese è contento di avere un figlio pittore? Eppure è descritto come un uomo tormentato e indeciso, permaloso, trasandato nel vestire, collerico, impulsivo, aspro e scontento. C’è qualcosa di non risolto nella sua mente e nella sua anima, a dispetto di una vita tutto sommato tranquilla.

Cosa cercava in una provincia retriva e bigotta qual era la Provenza alla fine dell’‘800? Non è facile entrare in sintonia con i suoi contadini (I giocatori di carte) rigidi come statue di legno: giocano a carte in una bettola, con una bottiglia di vino sul tavolo. Chi sono? Quando guardiamo “I mangiatori di patate” (Van Gogh) “L’absinthe” (Degas), o il mondo postribolare di Toulouse-Lautrec, abbiamo subito la netta coscienza di una condizione umana coinvolgente e inequivocabile, di una rappresentazione artistica senza sbavature. Non così con i contadini di Cézanne, soggetti privi di una nitida individualità. La stessa indeterminatezza si riscontra nei Fumatori di pipa che guardano nel vuoto. I loro occhi, simili a buchi neri, ricordano la “Cacciata di Adamo ed Eva” (Masaccio) della Cappella Brancacci di Firenze. Ma lì la scelta espressiva identifica il dramma, come una maschera teatrale greca. Qui i pensieri incerti e lontani dei protagonisti non si indovinano.

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A parte la rudezza dei contadini, c’è come una greve materialità in tutte le opere del primo periodo di Cézanne. Ed anche quando lo stile del pittore si è evoluto ed affinato, rimane una sorta di disarmonia, di disaccordo col mondo; un mistero da custodire o un’esperienza da nascondere che si esprime in primo luogo nella scarsità di figure femminili e di ritratti di donne. Se si escludono i numerosissimi ritratti di Hortense, la moglie, dipinta in pose ed atteggiamenti che la rendono difficilmente assimilabile ad un sogno erotico: dura, legnosa, inespressiva, senza risonanza interiore se non una tristezza più suggerita che rappresentata.

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Con gli abiti della quotidianità provinciale, è simile alla domestica (Donna con caffettiera). 

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Pare che il loro matrimonio sia stato grigio, o peggio. Oltre ai ritratti della moglie, una casta e compunta ragazza (forse Rose, la sorella) raffigurata mentre suona il pianoforte in un interno domestico (Ragazza al pianoforte), una mesta Signora in blu, una scoraggiante Donna con abito rosso. Quello che manca è un’innamorata, un’amica, un sorriso. Nei confronti delle donne reali non si scorge mai un tratto di tenerezza.

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Alcune figure femminili, Una moderna Olympia, Pastorale, Betsabea, appartengono al sogno. E la dimensione onirica consente all’autore di rappresentarle bianche, morbide e sensuali, quasi paradigma dell’eterna, irresistibile fantasticheria maschile di una donna offerta e vogliosa.

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Le altre immagini di donne e uomini (Il festino, Le bagnanti, Le grandi bagnanti, I bagnanti) turbano per una sorta di eccesso di corporeità, per le deformazioni volute e sgradevoli, per le pose scomposte e quasi simiesche. L’esecuzione sommaria e sbrigativa, prima di essere tecnica innovativa, fa pensare ad istinti primordiali, a smanie incontrollabili e inappagate. E nello stesso tempo quasi al desiderio di “liquidare” l’argomento umanità. Nella muscolarità maschile c’è qualcosa di titanico che va oltre Michelangelo e confina col brutale.

Cézanne ritornò molte volte su questo tema, allontanandosi dagli schemi classici dello studio del nudo e assimilando uomini e donne a qualunque altro elemento della natura (un tronco, un masso): un’umanità priva di un corpo anatomicamente plausibile e ancor più priva di anima. Torna e ritorna sul tema per creare una realtà alternativa, per annientare l’umanità. E non sembra solo una questione di stile. Forse il problema di Cézanne è il rapporto con gli esseri umani. E forse proprio per evitare questo rapporto si rifugia in campagna. C’è qualcosa che lo angoscia, qualcosa di cui ha paura. Ecco perché trova rassicurante dipingere innocui giocatori avvinazzati e fumatori di pipa immemori del mondo: fanno parte del paesaggio, sono silenziosi e immobili come le montagne. Sembrano soli anche quando sono in compagnia. Da loro a Paul non può venire niente di negativo. Se li può permettere. Lui, che pare non volesse essere toccato.

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Più a suo agio egli si trova nella rappresentazione pittorica dei suoi amici di sesso maschile. Gli amici li conosce e li ama. Qui c’è una confidenza che non teme il sentimento, ed ecco la malinconia degli sguardi, la presenza di un’anima individuabile. Per tutti è emblematico il ritratto di Achille Empéraire. Le gambette gracili negli indimenticabili mutandoni, le mani di un morto, la testa più grande del normale, l’espressione tenera. Sembra una creatura da circo, un nano abbandonato. Il pittore vuole sottolinearne la debolezza e il bisogno, e ha voglia di proteggerlo. Per la prima volta, dopo le immagini esagerate e violente, (La Maddalena, La donna strangolata), un dipinto che tocca il cuore. Pur rimanendo in questi ritratti, e in particolare negli autoritratti – duri,  severi, aggressivi e quasi respingenti – un tratto forte, la tendenza ad una pittura couillarde, (letteralmente con i coglioni, cazzuta, diremmo in italiano) come, con un’espressione non precisamente elegante, la definì lo stesso pittore. Si riferiva allo stile di pittura adoperato, ma è una definizione che si attaglia anche ai soggetti rappresentati.

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Oltre ai ritratti, Cézanne dipinse prevalentemente paesaggi e nature morte. Qui non c’è umanità, quindi non c’è paura né angoscia. “Isolamento: questo mi ci vuole. Così nessuno può piantarmi gli artigli addosso”. Così si esprimeva l’artista  prima di rifugiarsi al Jas de Bouffan, una tenuta acquistata dal padre e diventata la sua tana nei momenti di crisi. Fortunatamente la natura non ha artigli, per lui. Ma ugualmente la spoglia e la semplifica. Non solo la priva della presenza umana ma la riduce all’osso: elimina progressivamente anche le case e gli alberi, lasciando di essi solo qualche traccia da indovinare. Sembra voler dipingere il silenzio, ancor meglio quei “sovrumani silenzi” di Leopardi, quell’indefinibile essenza delle cose cui tendeva. Trova soggetti ancora più appetibili nei frutti, nei bricchi, nelle immobili tovaglie. Docili, eternamente pazienti. Non deve richiamarli come i modelli che costringeva ad estenuanti sedute. “Dovete essere come le mele, forse le mele si muovono?”. Sui frutti esercitava la sua ricerca di semplificazione: “Con una mela stupirò Parigi”.   

Per gran parte della sua vita cercò un successo e una considerazione che i contemporanei gli negarono. Queste frustrazioni determinarono in lui un sentimento di sconfitta, ma insieme accrebbero la sua consapevolezza di artista ed innovatore. Più si sente respinto, più nasce in lui una sorta di risentimento per chi non lo comprende e un atteggiamento di sfida. Ecco perché si presenta, anche nei ritratti, come un volitivo guerriero. Questo non lo esime dal continuare a cercare pazientemente di essere apprezzato. Cosa che avvenne nella parte finale della sua vita senza determinare particolari mutamenti nella sua esistenza. Continuò a dipingere in solitudine, come abbrutito, incurante dei ragazzi che lo irridevano per strada. Dipingeva a pennellate brevi, come tessere di un mosaico che si compone allontanandosi dal dipinto. Il suo studio, povero, era pieno di mele verdi.

La sua spinta innovativa divenne ossessione innovativa, con la ripetizione estenuante degli stessi soggetti (decine di volte dipinse la Montagna Sainte-Victoire, che vedeva da una finestra del suo studio) cercando ogni volta di  portare alle estreme conseguenze la sua ricerca: non voleva dipingere la fuggevole impressione, ma andare oltre l’apparenza per arrivare al cuore del reale, alla sua remota, ultima essenza. Ecco perché ogni quadro è diverso dall’altro, ma tutti rispecchiano lo stesso tormento.

Parlò molto di geometria nella realtà, di rappresentazione pittorica attraverso la sfera, il cilindro e il cono. Teorizzò le sue scoperte e le sue ambizioni. Queste numerose dichiarazioni spostano l’attenzione sul piano intellettuale e forse l’errore di tutto ciò che gravita intorno a Cézanne è proprio l’eccesso di intellettualità e di parole. Lui stesso parla molto: spiega, commenta, elabora. Si espone alle facili critiche: ci fu chi disse che aveva la mente confusa e non sapeva neanche lui quello che cercava.

Da quando sono nate le teorie estetiche, i cartelli, i manifesti, e le conseguenti battaglie per affermarle come ricette per le opere d’arte, sono aumentate le parole e sono diminuiti i buoni risultati. Non esiste la ricetta per il capolavoro. In realtà, un libro, un quadro, una musica non si giudicano in base ad una teoria e neanche in base alla realizzazione di quella teoria. L’arte non è teorema, non è geometria, non è filosofia. Ammesso che dipingere la Montagna Sainte-Victoire sempre più spoglia sia la cosa giusta da fare per coerenza con la teoria elaborata, poi bisogna vedere se il dipinto ha validità estetica. Perché questa è l’unica cosa che conta. E bisogna vedere se i frutti quasi informi delle Nature Morte di Cézanne siano preferiti dal grande pubblico a quelli di Caravaggio, il cui canestro (Ragazzo con canestro di frutta) è entrato anche negli stereotipi della pubblicità, alimentare e no.

Riguardo a Cézanne i critici si affannano a parlarci del rapporto tra luce e colore e della sperimentazione di una prospettiva multifocale. Dovrebbero invece dirci perché queste “invenzioni” sono da considerarsi arte, e in che misura rappresentino un progresso rispetto ai parametri classici. Dovrebbero entrare nel merito artistico delle opere, perché parlare solo di tecnica è come illustrare lo schema di un famoso sonetto – “Alla sera” del Foscolo – senza far capire perché è un capolavoro.    

Chi frequenta i musei e guarda i dipinti, non conosce né le teorie né la storia delle opere. Ed ha ragione. Non ha il dovere di sapere nulla: lui è il destinatario del messaggio, non l’interprete o l’esegeta. La pittura non si spiega, non è per i critici, come non si spiega la poesia, che non è per i letterati. Così per Cézanne è inutile ribadire la semplificazione delle sue immagini rispetto all’Impressionismo: si vede. Anche chi non è uno studioso, avverte l’innovazione, il cambiamento, la modernità delle sue opere rispetto a quelle di Monet. Ma anche questo non conta. Negli occhi rimane il verde dei suoi paesaggi silenziosi e salvifici, i frammenti di colore che vagano nell’aria e si compongono in una realtà riconoscibile e insieme sognata. “Essenza delle cose”? Non importa. Possiamo chiamare tutto questo “bellezza”. 

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Cézanne morì solo come solo era vissuto. Colto da un terribile temporale, ebbe un malore e rimase incosciente per ore sotto la pioggia. Portato a casa su un carro cercò presto di rimettersi al lavoro, incurante delle sue condizioni, ma una polmonite lo portò rapidamente alla morte. Hortense e Paul, il figlio, che erano fuggiti a Parigi per sottrarsi ai suoi eccessi di solitudine, non fecero nemmeno in tempo a ritornare.

Il contatto con Cézanne uomo lascia l’amaro in bocca. Sarà stato intrattabile e scorbutico, ma era un artista, soffriva, e si amerebbe potergli tendere la mano. Soprattutto quando non si riesce ad evitare un’onda di commozione al racconto della sua fine.

Anna Murabito    annamurabito2@gmail.com

PITTORI di Anna Murabito

I lettori del blog conoscono gli articoli contenuti in questo libro. Raccoglierli e arricchirli di numerose immagini mi ha fatto passare molti giorni a contatto con la bellezza, rischiando la nota “Sindrome di Stendhal”.

L’incontro con l’arte è un’esperienza inesauribile scandita ad ogni occasione da umori nuovi e nuove meraviglie: credo che in questo stia la sua peculiarità. Sul piano intellettuale anche il commento migliore non rappresenta mai una parola definitiva.

Ringrazio caldamente Carlo Casagni, coautore infaticabile e generoso per la parte tecnica. 

Anna Murabito  annamurabito2@gmail.com

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CHAGALL di Anna Murabito

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Musica di Max Bruch: “Kol Nidrei” Op 47

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Che il dolore sia l’inevitabile retroterra dell’arte è quasi un luogo comune. “Perché?”, mi disse un giorno un amico, “Non tutti i pittori sono Van Gogh, ci sono i pittori felici”. Non mi convinse del tutto, ma l’argomento era di quelli che si addicono all’amicizia. Gli chiesi un elenco, di questi pittori felici, e lui me lo fornì.

     Comunque, tra i pittori felici merita un posto Marc Chagall (1887 – 1985) o Moishe Segal o Mark Zacharovič Šagal, che anche da queste molteplici identità trae occasione di ricchezza e non di smarrimento. Né, tanto meno, di arzigogolate angosce esistenziali. Convivono senza conflitti in lui, questi diversi umori, così come l’asino convive con la luna nei suoi affollati cieli fantastici.

Russo, ebreo, francese. Ebreo per il villaggio in cui è nato e che gli è rimasto nel cuore; francese per adesione culturale ai fermenti del Ventesimo Secolo; russo, soprattutto russo, per la memoria delle favole, per il temperamento appassionato ed esuberante. Una sorta di Čaikovskij. Con un pathos limpido e mite però: un inesauribile creatore di “melodie” pittoriche, in cui a volte il colore esce dai margini dell’immagine rappresentata. E questopiù che per l’adesione a un movimento culturale (il “Tachisme”, da “tache”, macchia), per una sorta di sopraffazione che il colore opera nei margini stessi della sua anima e della sua visione del mondo.

Aderì alla Rivoluzione di Ottobre, ma da artista, senza realmente capirla, e non riuscì mai ad essere sovietico: nulla avevano a che fare gli innamorati verdi e le mucche blu con la causa del popolo, così come i dirigenti del partito la intendevano. La glorificazione di Marx ed Engels non era in linea con le sue visioni.

Conobbe i pogrom (uno il giorno stesso della sua nascita), le due guerre, il comunismo, il nazismo, l’esilio. Ma queste vicende, che sconvolsero la vita del mondo, lo lasciarono indenne: perché lui ci racconta prevalentemente l’amore e l’infanzia, la favola, il gioco, il circo. Il suo è un universo individuale, e i ricordi gli servono solo ad arricchire la “sua” storia; non sono e non vogliono essere, se non in piccola parte, un documento della storia degli uomini. Sono eventualmente un pretesto per raccontare il cuore degli uomini, così come può esserlo la poesia nostalgica di Fellini.

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Il villaggio è onnipresente. Nelle sue tele si respira un mondo semplice e privo di inquietudini. Le albe e i tramonti scandiscono il tempo; la stalla è attigua alla “camera da letto”; i ragazzi imparano a mungere le mucche e le chiamano per nome. Gli animali, gli immancabili animali – che l’artista riporta anche nelle magnifiche vetrate istoriate delle Cattedrali europee e della Sinagoga di Gerusalemme – potrebbero non avere sempre quel valore simbolico che alcuni critici vedono in essi, ma esprimere a volte solo una familiarità vestita d’ingenuità: gli occhi sgranati del bambino di fronte a un uccello sconosciuto; l’affetto per l’asino, una sorta di fratello più forte; l’aringa, un pesce grande, importante, perché collegato al mestiere del padre.

Siamo lontani dalla poesia intellettuale e squisita di La Fontaine, di cui pure illustrò le favole. Qui c’è lo spessore, a volte perfino grottesco, delle storie del mitico Giufà siciliano, dove il gallo può essere chiamato scherzosamente e familiarmente “il cantalanotte”. Il mondo descritto è quello delle scarpe grosse e del fieno, degli odori eterni della natura, dei fiori di campo, dei ragazzi che si appartano per fare l’amore e poi si sposano – lei nella povera eleganza del velo bianco –  con una cerimonia accompagnata dall’immancabile violinista. Questo è il contadino ebreo russo che descrive il suo mondo, mentre è soltanto ebreo il pittore che ci mostra il violinista sul tetto, simbolo delle difficoltà che il popolo ebraico è chiamato ad affrontare, abituato com’è a dare il meglio di sé anche in condizioni estreme.

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Tutti galleggiano nei quadri di Chagall. Ed è un volare irrealistico e sproporzionato. Distanze, prospettiva, dimensioni vengono inventati ex novo, in linea con l’estro visionario dell’artista. Lo spessore degli ambienti, degli animali, dei personaggi, si scioglie in un mondo turbinante e ripetitivo, un’assenza di gravità originata da una fantasia più che visionaria: fantasmagorica. Non è l’inconscio devastante di Bosch, che emerge, né quello delle sedute psicoanalitiche. Le immagini di Chagall non affiorano a tradimento e dolorosamente né sfuggono per caso, come il lapsus di Freud; non esprimono verità seppellite sotto la vita, ma al contrario una vita con verità esplicite e degne di essere mostrate. Il pittore ce le ripropone mille volte con i colori smaglianti e irriducibili di un’evidenza che si impone a tutti, con la disinvoltura quasi infantile di chi non teme smentite, talmente ascolta soltanto la propria fantasia che sovrappone alla realtà fino ad annientarla. Perché quella fantasia è l’unica strada che sa percorrere; è la sua visione del mondo. Soavemente surreale.

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E, accanto al villaggio, l’amore. La coppia, gli innamorati, gli amanti, gli sposi soprattutto, declinati in tutte le pose, di giorno e di notte. Belli o brutti, verdi e viola, quasi sempre vestiti. Non c’è sensualità, c’è il sentimento atavico di un rapporto vitale che riguarda tutti o almeno i fortunati che lo hanno vissuto: l’amore è nel mondo, come la terra, come la luna, come il sole, trasformato a volte in una sorta di astro familiare, di fiore pazzo, rosso come un tuorlo, neanche tanto rotondo. Il sole è con gli innamorati, in un mondo che comprende tutti gli esseri del creato. Chagall conosce l’amore. Per questo riesce a raffigurare la passione e l’abbandono, la tenerezza e la fiducia negli abbracci e negli sguardi; negli occhi che si chiudono; nelle mani che accarezzano e proteggono. Non sono gli innamorati a galleggiare, galleggia l’amore.

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Non è solo “visione”, tutto questo. C’è anche una sorta di panteismo elementare e benevolo risalente alla religiosità popolare della Cabbalah. C’è il misticismo tipico dell’anima russa. E inoltre un richiamo, forse un po’ sfocato, allo “spirito”, al lato invisibile delle cose, da cui l’artista si sentiva attratto. La sua tendenza alla spiritualità muta la rappresentazione del mondo concreto in un universo pittorico unico: e vive sulle tele una “realtà” senza peso intrisa, oltre che di sogno, di mistero religioso. Apollinaire definì “soprannaturale” la pittura di Chagall.

Perché volare. Credo lo stesso artista abbia detto che l’amore rende capaci di volare e che lui ha dipinto i suoi personaggi “in cielo” perché erano come inquilini senza casa sulla terra. Belle spiegazioni razionali che danno un senso ad una rappresentazione. Ma l’arte è solo rappresentazione?

Si potrebbe dire altrettanto legittimamente che i personaggi galleggiano come nell’immaginario popolare “volano” le anime e gli angeli. O anche, ritornando allo stesso Chagall, che “La pittura è uno stato d’animo”. Ma forse non serve che i pittori parlino d’arte. E paradossalmente neanche gli storici dell’arte dovrebbero tentare di spiegarla. Perché l’arte non risponde ai “perché”.

E allora cos’è l’arte di Chagall? È una magia. Forse uno stato di grazia che concede a pochi privilegiati il mestiere di Dio. E Dio doveva intendersene di colori, a giudicare dai dipinti di questo artista. Più che le sue figure e i suoi temi un po’ ripetitivi, sono i colori che non smettono di galleggiare davanti ai nostri occhi: un caleidoscopio senza fine. Un’ossessione positiva, una sorpresa gioiosa, che lascia una traccia squillante, come può venire da un pittore felice.

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Ma non sempre felice: Chagall conobbe la depressione. Dopo la morte di Bella Rosenfeld, sua moglie, ispiratrice e compagna di vita per moltissimi anni, si spegne nella mente dell’artista la voglia di distribuire immagini di cielo notturno, di immensi uccelli blu e di angeli acrobati. La realtà, quella vera e inconciliabile col sogno, lo spezza e lo ammutolisce. Poi, dopo un anno, il suo temperamento appassionato avrà la meglio. E di nuovo riprenderà la sua narrazione: la favola, l’infanzia, l’amore. Su tutto una sorta di divinità pervasiva, priva di rigore e di vendetta. Una realtà consolante e surreale.

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Tra le sue opere mi piace ricordare certe immagini, come quella famosissima, (“La passeggiata”), in cui l’innamorato porta a spasso per i cieli di Parigi la sua ragazza, come un aquilone, come un palloncino leggero, come una bandiera viola. Un ideale che sogna un ideale.

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Anna Murabito      annamurabito2@gmail.com

PIERNEEF di Anna Murabito

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Musica di R. Vaughan Williams: “Fantasia su un tema di Thomas Tallis”

Jakobus Hendrik Pierneef è un pittore, nato e morto a Pretoria (1886 – 1957). Poco conosciuto in Italia, le sue opere sono esposte nei grandi musei sudafricani e le sue quotazioni sono molto alte.

È definito un paesaggista, e di solito questo corrisponde ad una natura bucolica. Invece io percepisco nei suoi dipinti un sentire violento e insieme raffinato e poetico.

Il paesaggio non è la sua scelta pittorica, è il suo inseparabile compagno. Una ineludibile ossessione che si ripropone in una sfilata di sogni ad occhi aperti. Talvolta Jacobus riesce a domarlo, ritagliandolo con le forbici della stilizzazione, talvolta ne è sopraffatto, investito dalla tempesta dei colori e delle forme. Ed ecco allora le sue montagne di cartapesta. Rosse e quasi sensuali, ma anche viola, rosa, gialle, arancione, vestite con i colori del gioco e della favola. Forse l’Africa è troppo “grande” per un solo pittore e produce evasioni della mente, esaltanti fughe nell’immaginario.

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Ecco perché, per Pierneef, la definizione di paesaggista è riduttiva: Jacobus è un figurativo onirico. I suoi dipinti non sono tanto rappresentazioni quanto trasfigurazioni.

Il suo sogno ha due dimensioni: la terra e il cielo.

La terra è dominata dal silenzio, dalla luce, dagli alberi. Elementi che sembrano entrare uno nell’altro, in un insieme indivisibile: alberi dai margini netti o spumosi, verde chiaro, vinaccia o arancione, piantati in una realtà estatica e rarefatta. Hanno l’eleganza formale delle stampe giapponesi; rappresentano un godimento intellettuale prima che estetico; sono belli come un sogno perfetto. Proiettano un’ombra inutile, dal momento che non c’è nessuno e si appagano di sé: guardiani di una luce improbabile, a volte viola chiaro, che inquieta e incanta.

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Oppure scheletri ormai esausti, di cui si avverte quasi l’assenza di linfa e il crepitio dei rami spezzati. Scuri e visibili anche da lontano, come grandi totem.

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A volte colori mai visti sono accolti in uno schema paesaggistico assolutamente classico; più spesso la stilizzazione semplifica le forme ed esalta il silenzio. Non solo l’essere umano è assente, ma non si sentono neanche uccelli cantare o serpenti strisciare. Non c’è quella presenza oscura e frenetica che un poeta ha avvertito nel meriggio estivo ligure: “Ascoltare tra i pruni e gli sterpi, schiocchi di merli, frusci di serpi”. La vita fissata sulla tela è ferma come una conchiglia fossile, un dipinto di Lascaux. Essenziale come l’amore quando si esprime in un gesto.

La metà dell’universo figurativo di Pierneef – la terra – mostra sempre una realtà riconoscibile, ancorché legata alla favola e al colore. Il sogno delle nuvole occupa invece un’altra dimensione, più vicina all’astrazione, confinante con un incontenibile inconscio. Le nuvole sono pura creazione, immaginario poetico divenuto visione. Raramente sono dense e carnose, cariche di pioggia, come quelle che si vedono lungo le coste dell’Oceano in un suo “Lone tree”.

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Raramente sono sfilacciate, morbide, tenui, semplicemente nuvole. Sono un mondo da percorrere con le ali. Sono l’itinerario di una visione multiforme e priva di censure: paracadute, ombrelli bianchi, gonne ampie di fanciulla. Sono ghiacciai sospesi nel colore viola pallido. Iceberg e cascate galleggianti nel blu. Monumentali riccioli di burro, gialli e grassi, così pesanti da far temere che cadano da un momento all’altro. Altre masse e ghirigori, non facilmente identificabili. Quando non vuole dare forma alle sue nuvole-sogno, il pittore porta in cielo un pezzo di terra, e il cielo diventa specchio del campo con le tinte tenui delle diverse colture.

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A volte tutto si mescola. Ombre lunghe, luce sovrana, radente, che esalta il bianco, ma è spettrale nel cielo violaceo. Forse pioverà. Certo le nuvole sono monumenti di Titani (“Landscape”).

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Altrove alberi come pilastri di un cancello immaginario. Cortine grigie in successione. In lontananza il solito cielo “affollato”: Il trono di un dio invincibile? Lastre di marmo di una città distrutta? (“Strange weather”).

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Pierneef non è un naif. I colori insoliti e l’eleganza del tratto sono filtrati da una consapevolezza squisitamente intellettuale. I suoi dipinti stordiscono e ipnotizzano, anche per la ripetizione degli stilemi che comunque non diventano mai modulo inerte ma vita che si rinnova ad ogni visione. Di presa immediata, non hanno bisogno di interpretazione o meditazione: colpiscono come un’onda sonora. L’ossessione paesaggistica di Pierneef diviene anche l’ossessione dello spettatore quasi violentato eppure mai appagato: in cerca del quadro successivo, di altre tinte mai viste, di altre nuvole inventate.

La realtà finita e l’infinito immaginario si toccano e si confondono, lasciandoci vagamente sgomenti.

I dipinti di Pierneef sono attaccati alla sua anima. Sono spesso una favola divorata dalla grandezza di un cielo imprevedibile.

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Anna Murabito     annamurabito2@gmail.com

MANET E MONET di Anna Murabito

 

Note su due grandi pittori

di Anna Murabito

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Musica di César Franck: dalla “Sonata per violino e pianoforte”

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Musica di Johannes Brahms: dal “Quintetto per archi op.115”

Li abbiamo sempre confusi, o almeno distinti grossolanamente. Édouard Manet (1832 – 1883) l’autore de “La Colazione sull’erba”, opera ritenuta enigmatica quasi quanto “La Tempesta” di Giorgione; e Claude Monet (1840 – 1926), “quello delle ninfee”.

Li abbiamo messi insieme a torto in quel calderone fremente di vita che fu l’Impressionismo, chiedendoci: Manet o Monet? La colpa, ovviamente, è loro. Ne mancavano, cognomi? Tra l’altro, per ispessire la nebbia, anche Monet è autore di una “Colazione sull’erba”. 

A volte procediamo per semplificazioni elementari: Degas è “quello delle ballerine” e dimentichiamo che è anche quello de “L’Absinthe”, che è certo l’assenzio, ma anche la mancanza di speranza nello sguardo di una donna. E le colorate farfalle danzanti sono solo una parte della sua ossessione pittorica che conosce l’eros greve delle case di tolleranza. Almeno però non lo confondiamo con nessun altro. Per Manet e Monet, dunque, qualche precisazione è necessaria.

Volendo fare un paragone tra i due artisti, si potrebbe dire di Manet, con Anna Achmatova: “Ci sono giorni che precedono la primavera”. E di Monet: “Primavera d’intorno brilla nell’aria e per li campi esulta”. Uno precede l’altro e fa da battistrada.

Quando gli schemi sono vecchi e usurati, si può creare il clima giusto perché la forza di un genio li abbatta. Manet sentì prima degli altri l’urgenza di percorrere strade diverse. Con lui la pittura abbandona gli studi polverosi e i soggetti ampollosi e stantii ed entra nella vita reale, spesso “en plein air”, all’aperto. Le divinità del mito e i personaggi storici cedono il passo alla quotidianità, alla gente comune.

La sua fu una grande rivoluzione: quella che aprì la strada all’Impressionismo, anche se egli non si propose mai coscientemente questo scopo. Non volle mai essere un ribelle, ed anzi si ostinò, con lunga pazienza, a cercare l’approvazione degli ambienti accademici. Fu travolto dalle critiche. Assaggiò delusioni cocenti ed anche umilianti irrisioni. Forse fu innovatore al di là di quel che avrebbe voluto. Forse voleva solo riformare la pittura classica. Se fosse riuscito ad essere un po’ più conformista, e ciò gli avesse permesso di essere accettato dai critici suoi contemporanei, forse si sarebbe per questo “falsificato”. Per nostra fortuna il suo genio era indomabile. E la sua importanza nell’ambito della Storia dell’Arte è enorme come enorme è il fascino immortale delle sue opere.

La ragazza di “Un bar aux Folies Bergère” è stampata nella nostra memoria insieme al nome del suo autore. È lì, per sempre, in primo piano, mentre dà le spalle a un pubblico anonimo che assiste allo spettacolo. Così naturalmente giovane ed ingenuamente procace, il viso serio e l’espressione quasi timida. La vita sottile, di cui si indovina il tepore, pare aspettare il braccio di un uomo al ballo. Non è una nobildonna, non è una persona importante. È una creatura viva in mezzo alle bottiglie vive e colorate. Il prototipo della brava e bella ragazza del bar, quella dall’anima candida, che spesso accompagna e consola l’eroe stanco al bancone.

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Nelle scene ambientate ad Argenteuil incanta l’indicibile leggerezza e naturalezza dei gesti e dell’abbigliamento. Un uomo dalla mise bianco-abbagliante in barca, un altro con una maglietta a righe con le maniche rivoltate a mostrare braccia abbronzate.

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C’è un dipinto in cui una coppia siede a un tavolo di un locale pubblico, sotto un albero di arancio. Lui è un giovane bello e disinvolto, elegante nella sua camicia gialla con la sua piccola cravatta Lavallière da pittore, secondo la moda del tempo. Lo sguardo tenero implorante e sfrontato, la bocca sensuale, sta corteggiando la sua “dame”. Si allunga verso di lei e quasi la circonda con le braccia. Sono troppo vicini per non parlare d’amore. Tutta l’attenzione del pittore è concentrata sul volto dell’uomo, uno scugnizzo napoletano terribilmente moderno. Le sta sussurrando l’eterno invito: “Vieni a letto con me e ti farò felice. Con me vedrai le stelle nel cielo azzurro del meriggio estivo”. Lei è un po’ rigida ed incerta: “Il cameriere ci sta guardando”, sembra dire. “Lascialo guardare”, continua lui.

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Le signore sono piuttosto statiche ed impettite in queste scene marine ed estive. Sembrano un passo indietro, rispetto agli uomini. Ma la vita che scorre non racconta più pose e allegorie, è quella di sempre, anche quella di oggi. Il “clima” è caldo e popolare, sembra di vedere nei personaggi maschili una sorta di Massimo Ranieri più raffinato, ma sempre con le sue “rose rosse per te”.

Non ricordo prima di Manet un pittore così moderno e così limpidamente esplicito. Lontanissima l’enfasi di Hayez, che si lancia a rappresentare l’amore romantico come poteva immaginarlo una sartina. O il tentativo di Klimt di portare su tela il lusso e la raffinatezza di cui anche la donna, con i suoi sensuali sfinimenti, è un esempio.

La luce “en plein air” bastava raccoglierla, e Monet ancor più di Manet, la rese protagonista.

In entrambi la luce non sottolinea più le espressioni e non scolpisce i volumi, come in Caravaggio; non esalta il pulviscolo fluttuante in un raggio di sole come nei miti interni dei fiamminghi. Ma in Manet questa luce appare  ancora statica, come se venisse da una sorgente fissa e diretta, esterna, ad accompagnare la vita; in Monet invece si muove e sembra avere un’esistenza propria. Una sorta di valore in sé: macchia chiara sulla gonna o sull’erba, degna di essere rappresentata. Non strumento, ma risultato.

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I volti perdono interesse. Sono appena abbozzati. Chiazze di colore in mezzo alle altre. I quadri crescono a pennellate veloci, senza disegno preparatorio. Mentre lo scandalo dei critici si levava alto, il paesaggio sostituiva l’uomo come soggetto cangiante, all’infinito.

Nessun ritratto in Monet. Quando rappresenta la figura umana, la natura e la luce invadono l’abito bianco e il parasole verde che fa tutt’uno col cielo azzurro. La realtà si trasfigura in un fulgore che trema e ricorda veramente la primavera leopardiana.

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Nessun sentimento da comunicare: soltanto il respiro fremente dell’aria; la seta di cieli tenerissimi e indistinti; l’allucinazione velata di rosso di Cattedrali gotiche, di cui non si saprebbe dire se sono sogno o realtà. Un lento viaggio verso qualcosa che non si era mai visto, la fine della pittura figurativa: nell’acqua del mare e del lago, nelle nuances indistinte delle foglie degli alberi. La realtà pittorica si semplifica, liberata dagli schemi, dai simboli, dagli intenti didattici ma si dilata e arricchisce attraverso i mille occhi che la percepiscono, nella infinita libertà delle sensazioni che procura, così come infiniti sono i colori. E anche la pietra smette di essere pietra. Rouen non è più una cattedrale di granito innalzata per la gloria di Dio, ma diventa occasione di emozioni in tutte le ore del giorno e in tutte le stagioni. Il colore diventa essenza, la luce l’unica realtà astratta che valga la pena di rappresentare.

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Catturare la luce, catturare il colore: cogliere quello che l’occhio percepisce e mescolarlo con il battito meravigliato del cuore, in una visione radiosa della vita: con Monet esplode l’Impressionismo e con esso la libertà e la leggerezza di un’arte pittorica che legittima l’emozione come immediata risposta. Come disse Gauguin: prima l’emozione poi la comprensione.

Con Manet e con gli Impressionisti (in prima fila Monet) ci avviciniamo alla pittura in sé, che è figlia del piacere di vedere. All’impressione, all’emozione della realtà e dei suoi colori, piuttosto che alla cronaca della visione. Non c’è posto per Arti e Mestieri, Vizi Capitali, Estasi di santi e Crocifissioni. Non c’è posto per omaggi ai potenti né per stereotipate rappresentazioni di umili pastorelli. La donna smette di essere Madonna o Nobildonna e diventa ragazza che legge un libro sotto un albero nel tripudio della primavera, giovane madre che passeggia per i campi in un giorno d’estate e le sue gonne bianche si portano dietro erba secca. Passando da un quadro all’altro, da un pittore all’altro, si è incantati da cento visioni, senza che sia importante il soggetto rappresentato, quanto la gioia di ciò che vediamo.

Questi grandi pittori non ci insegnano nulla, perché quello che ci comunicano non è materia di apprendimento. Manet ci lascia il sole che si accende sugli abiti di un giovane, durante una gita in barca; il desiderio d’amore negli occhi di un uomo. Monet ci lascia il rosso dei papaveri, il profumo del vento, il silenzio che cambia colore intorno alla cattedrale. Cose che non si apprendono, si sentono. Ed assumono valore universale perché arrivano al cuore di tutti, come le parole semplici delle Tragedie greche, come la musica di Mozart. Ecco perché le riproduzioni delle opere più note degli Impressionisti si trovano anche nelle case degli umili. La pittura non contribuisce alla “cause du peuple” di Sartre negli anni devianti del “realismo socialista”, ma alla causa dell’umanità.

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Le anime dei defunti nel mondo classico avevano un dolore cocente, quello di essere privati della luce. Guardando i quadri degli Impressionisti cresce in noi il rimpianto della vita mentre la viviamo.

Anna Murabito      annamurabito2@gmail.com

HIERONYMUS BOSCH di Anna Murabito

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Musica di Igor Stravinsky: da “L’uccello di fuoco”

Le immagini del video sono tratte dal “Trittico del Giardino delle Delizie” e dal “Trittico del Giudizio Universale”

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5 Parte centrale

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17 Autoritratto

Hieronymus Bosch è un mistero. Di lui si ignora quasi tutto, a partire dalla data di nascita. Nessun episodio saliente, nessuna frase famosa, cosa che in un periodo di continua condivisione, qual è il nostro, ce lo rende lontano. Ma si tratta di una prospettiva dettata dagli schemi odierni. In realtà Bosch parla diffusamente, anzi grida un messaggio di fuoco, di dolore e di umori. “Umano, troppo umano”, avrebbe detto Nietzsche.

Questo gran parlare, tuttavia, non rende trasparente il suo linguaggio. La sua opera non è facilmente accessibile e non si presta ad interpretazioni univoche.

Lo spettatore che si trova per la prima volta davanti a un dipinto di Hieronymus Bosch prova innanzi tutto l’angoscia di sentirsi assegnare un compito tremendo: una serie di vignette gremite con molti episodi da districare, interpretare, decrittare. Più che un’emozione, la promessa di un lavoro pesante. Poi è sconcertato dalle atmosfere ambigue. Ambienti onirici, contrassegnati dall’eccesso mostruoso, con una totale assenza di censura: le immagini sono scandalose e trasgressive.

È improbabile attribuire alle opere di Bosch una committenza religiosa, anche se i temi della sua narrazione pittorica attingono alla Bibbia: la Creazione dell’Uomo, la Cacciata dal Paradiso Terrestre, il Peccato e la Punizione. Bosch coltiva questi argomenti, li approfondisce e li ripropone, li fa interamente suoi, fino a prescindere dal loro significato originale. Essi divengono il suo personale racconto, esattamente come altri uomini parlerebbero dell’amata, del primo figlio, dell’eterno alternarsi delle stagioni.

La Creazione dell’uomo e della donna sono i pochi momenti sereni, ma si sente che non appartengono alla vena più autentica dell’artista. Sono solo  l’inevitabile premessa della narrazione centrale: l’Errore, il Peccato, e la serie multiforme di tormenti da infliggere per aver peccato. La Punizione: eterna, implacabile, ossessiva. Si spalancano per l’uomo le porte dell’inferno e l’incubo, il terrore e persino una grottesca irrisione dominano la scena. È lì che Bosch ci vuole portare. Le immagini non sono catarsi, ma rigurgito sempre vivo di un malessere senza fine.

Il Sesso è un tema fondamentale dell’opera di Bosch. È il suo rovello. Un sesso filtrato attraverso fantasticherie morbose; forse, attraverso tendenze sadomasochiste e sodomitiche; sempre, attraverso i sensi di colpa derivanti dai codici insormontabili della religione cristiana.

Qualcuno vede nel “Giardino delle delizie” il paradiso perduto. È difficile aderire a questa tesi. I giovani che cavalcano ogni tipo di animale in una corsa sfrenata non sembrano felici. Il sesso li seduce con le sue lusinghe ed essi vi si abbandonano, ma hanno coscienza del peccato. Allo spettatore appartenente ad un’altra zona d’Europa – quella del Mediterraneo – fanno venire in mente altre leggende e rappresentazioni, quelle dei Proci che gozzovigliano nella casa di Ulisse. Ma  sappiamo come andrà a finire.

Anche quei giovani lussuriosi finiranno come i Proci, anzi molto peggio: bolliti in pentola, scorticati, infilzati, seviziati, costretti alle azioni più degradanti, tormentati da mostri e bestie immonde. Con particolare attenzione alle natiche, indagate e violate con ogni tipo di attrezzo. Mentre cavalcano, quei giovani  presagiscono la loro sorte, per questo non sembrano felici.

Nell’Odissea il ritorno di Ulisse rappresenta il prototipo dell’intervento dell’“eroe”, in vista di un giusto equilibrio delle vicende umane. L’inferno di Bosch, invece, sgomenta e disgusta, inquieta e non risolve.

Il peccato più imperdonabile dell’uomo è la lussuria. Non che gli altri vizi non siano puniti, anzi un’opera del maestro è dedicata ai Sette Vizi Capitali. Ma il sesso è il male dei mali. Quello che porta a desiderare una donna rappresentata come Eva nel pannello di sinistra del Trittico delle Delizie. Ha gli occhi bassi, è vero, e mantiene un atteggiamento pudico, ma la linea dei fianchi è sensuale ed invitante per qualunque uomo sano.

Ci si chiede a che pro quella profusione di bellezza se non se ne può godere. Un Dio crudele avrebbe condannato uomini e donne ad un eterno supplizio di Tantalo, per poi punire la trasgressione con un inferno infamante, dove è vietata perfino la pietà per il dolore. Un inferno che si risolve in crudeltà cieca e insanabile. Che non lascia spazio al pianto, al sentimento, alla poesia. Lontanissimo da quello di Dante.

Bosch sembra raccontarci lo strazio di un inferno cristiano, mitologico e popolare, governato dallo strapotere del diavolo. Ma accanto a questo inferno ce n’è un altro, “esagerato”, prodotto dalla sua mente dove la fantasia esplosiva e lucida si confonde con quell’inconscio di cui parlano gli psicoanalisti.

Questo miscuglio genera infinite chimere, come fuoriuscite da una produzione in serie di pezzi sempre difformi. La realtà non è vista nella sua regolarità ma si frantuma e si aggrega in una libertà di composizione che con quattro secoli di anticipo ha fatto parlare di surrealismo.

Non si tratta della deformità simbolica, come quella riscontrabile nei volti dei popolani che accompagnano Cristo nella sua Via Crucis. Lì è evidente l’intento di rappresentare la bassezza d’animo, l’insensibilità, il ghigno grossolano. Nel mondo di Bosch si tratta invece di una deformità pervasiva e sconvolgente, che dilata e complica la realtà visiva, che rende ridondanti e “mostruosi” i fiori e le foglie, i frutti, gli insetti, gli uccelli e le rocce. Una realtà gelatinosa e grondante umori, un film horror. E non sappiamo perché. Forse è proprio l’inferno che esce dai suoi legittimi confini e invade il mondo. Forse non c’è altra realtà. I colori violenti e il ritmo concitato fanno il resto: si ha voglia di dire basta e si continua a guardare, affascinati e scontenti.

Le creazioni visive di Bosch sono meraviglia ed incubo: la linea di confine non è netta. Forse sono proiezioni del suo inconscio, forse farneticazioni della sua mente. Forse soltanto un grido di dolore.      

Anna Murabito     annamurabito2@gmail.com18 Trittico del giudizio intero

30 Particolare pan, centrale inf.

33 Giu particolare 3

MAURICE UTRILLO di Anna Murabito

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IMMAGINI DI MAURICE UTRILLO

Utrillo Tour Eifffel

Parlando di Maurice Utrillo (1883 – 1955) non si può non pensare all’altro grande “insano” della pittura, così noto che molti lo chiamano solo Vincent, indossano le magliette con il suo nome, conoscono episodi drammatici della sua vita.

Però Van Gogh ci porta a forza nel ferro e nel fuoco della sua mente; Utrillo invece dipinge “per intervalla insaniae”, e i suoi quadri sono parentesi, stazioni, bolle di tregua e di silenzio nel suo stridente divenire.

Alcolizzato fin dall’infanzia, figlio di un’alcolizzata, epilettico, bipolare, paranoico, conobbe ancora ragazzo i manicomi. Pare che la nonna lo avesse reso avvezzo all’alcol fin da bambino. Successivamente la madre, Suzanne Valadon, modella e pittrice di successo, gli insegnò a dipingere nel tentativo di fornirgli un’alternativa al vino. Di fatto la pittura divenne la sua unica alternativa, la sua intermittente terapia, la sua droga benefica. E l’espressione di una poesia intima, in cui il dolore si intravede appena, senza essere mai gridato.

Quanto a gridare, Maurice faceva anche di più: quando non dipingeva e non beveva, nei suoi accessi di furia scaraventava in strada ogni oggetto che trovava. Nella sua stanza la finestra conserva una rete metallica a maglie strette, per salvaguardare gli accidentali passanti, e solide sbarre per impedire che Maurice scaraventasse giù anche sé stesso.

Parigi è la sua casa, il rifugio della sua anima in pena. Vi si muove con sicurezza ripercorrendo sempre gli stessi luoghi, come chi ritrovi i ricordi vagheggiati di un’infanzia felice: Montmartre, il Moulin de la Galette, la casa di Mimi Pinson. Il suo respiro si placa nelle strade deserte, nelle piazze quiete, nella consonanza con gli alberi scheletrici o stilizzati. Le facciate delle case sono statiche, fondali di scena di uno spettacolo che non ci sarà.

Mai quadretti, mai idillio, mai kitsch. I suoi dipinti non sono neanche sogno: sono soprattutto fiato sospeso. La lentezza sembra materializzarsi e salire dal terreno come nebbia, nell’assenza di vento, nell’assenza di conflitti; gli altri non ci sono, o sono ridotti a sagome, figurine di carta senza volto né spessore, spesso inquadrate di spalle, in una solitudine composta e simbolica. Possono essere spazzate via con un soffio o con un gesto della mano, come quando si allontanano dal foglio i residui della gomma da cancellare. Piccoli, inoffensivi abbozzi di umanità, lontana dalle dissonanze del delirio.

Solitudine, silenzio, immobilità, interpretati ed esaltati dalle tinte mai violente: tutte le sfumature del bianco e dell’ambra, grigio, violetto, verde salvia, qualche tocco di rosso bruno. Nella pittura Utrillo abbandona i colori primari del suo tormento. Riesce a creare un lirismo sommesso e disperato in cui si coniugano la sua anima di fanciullo in cerca di protezione e la pena di un uomo che sa di usare i pennelli come morfina.

Anna Murabito     annamurabito2@gmail.com  

Utrillo-The-home-of-Mimi-PinsonAggiunta Utrillo 39 (2)Aggiunta Utrillo 2 (2)Utrillo Moulin de la GaletteUtrillo Montmartre

La Place du Tertre c.1910 Maurice Utrillo 1883-1955 Presented by the Courtauld Fund Trustees 1926 http://www.tate.org.uk/art/work/N04139

Utrillo neve e alberi stecchitiAgiunta Utrillo 37Utrillo 26 dicembreUtrillo Piazza con alberiUtrilloUtrillo Neve in una strada desertaUtrillo ScorcioAggiunta Utrillo 29Aggiunta Utrillo 30cUtrillo Immagine monocromaticaAggiunta Utrillo 38Utrillo DorotheumUtrillo Paesaggio innevatoUtrillo Piazza del Sacro CuoreAggiunta Utrillo 33Aggiunta Utrillo 27Aggiunta Utrillo 25Aggiunta Utrillo 34Aggiunta Utrillo 21Aggiunta Utrillo 36Aggiunta Utrillo 19Aggiunta Utrillo 18Utrillo Il Lapin agileutrillo montmartre sotto la neve-Utrillo-Le-Moulin-de-la-Galette-MontmartreUtrillo Strada innevatautrillo-cafe-bistroUtrillo Paesaggio desertoUtrillo Ancora MontmartreUtrillo StradaUtrillo Chiesa di San PietroUtrillo Il trio infernale

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