L’attentato di via Rasella, a Roma, fece trentatré vittime fra i “tedeschi” (erano di Bolzano) più altri feriti, e due italiani innocenti. I tedeschi reagirono con il massacro delle Fosse Ardeatine, in cui furono uccisi dieci italiani per ogni tedesco, più cinque per errore. Senza quella feroce rappresaglia, l’attentato sarebbe stato forse dimenticato, ma 335 persone ammazzate sono troppe, e l’episodio si è trasformato in un doloroso monumento alla Resistenza.
Secondo il parere unanime dei giuristi militari che si occuparono di questa vicenda (a cominciare da quelli inglesi), ai sensi della Convenzione dell’Aia del 1907 gli attentati contro le forze militari occupanti un territorio erano illeciti. In questi casi la rappresaglia – sempre secondo le leggi di guerra, anche attuali – è normale. Dunque i membri del Gruppo d’Azione Partigiana che pianificarono e attuarono quell’azione sapevano di doversi aspettare una reazione. Magari non immaginavano la morte di oltre trecento persone, ma certo giocavano sulla pelle altrui. Ciò malgrado, nell’incontrastabile retorica resistenziale, si è volenterosamente dimenticato che essi sono stati la causa diretta della rappresaglia e sono stati considerati valorosi combattenti. Il massacro delle Fosse Ardeatine è stato addebitato esclusivamente alla ferocia nazista, quasi fosse stato del tutto immotivato. È stato eccessivo, ma non immotivato. E per giunta quelli che l’hanno attuato hanno ottenuto che fosse meno grave di ciò che chiedevano Hitler ed altri militari tedeschi.
La rappresaglia fu giustificata, ma ne rimane discutibile la modalità. Personalmente non sono mai riuscito a fare completa luce sulla legge del tempo, riguardo al numero delle vittime previsto. Ma in materia di conflitti c’è un punto più conducente delle stesse norme stabilite con le varie Convenzioni di Ginevra: il fatto che la guerra è un fenomeno sociale eterno, più legato all’etologia della specie umana che al diritto.
La guerra è una cosa tremenda. In essa viene meno ogni freno morale, giuridico o semplicemente umano. Ciascuno agisce come gli conviene, anche in modo criminale. Per giunta, recentemente (XX Secolo) la guerra “di annientamento” ha ripreso la mentalità delle invasioni barbariche. Non si è più trattato soltanto, come un tempo, di piegare la volontà del nemico: in qualche caso si è voluto sterminarlo o renderlo schiavo, come intendeva fare Hitler con gli slavi. E quando si è magari trattato soltanto di costringerlo alla resa, lo sterminio dell’intera popolazione è stato efficacemente minacciato, con le bombe di Hiroshima e Nagasaki. Naturalmente, se allora il Giappone avesse avuto la possibilità di distruggere in un solo colpo l’intera California, l’avrebbe fatto.
Ciò pone un interrogativo: se non c’è modo di resistere, qual è la risposta giusta? È chiaramente quella che Hiro Hito impose ai suoi: la resa. L’ “economia di guerra”, già esplicitata da Clausewitz, è chiara: se, con un mio danno di valore dieci, provoco al nemico un danno di valore venti, l’azione mi conviene; se provoco un danno che vale dieci, e ne subisco uno che vale venti, l’azione va evitata. Proprio in base a questa logica, qualunque attentato contro le forze occupanti è, prima che illecito, semplicemente stupido. Non soltanto non avvicina la vittoria ma provoca più sofferenze alla popolazione che ai militari nemici. Questi infatti fruiscono di una schiacciante superiorità militare, nei confronti della popolazione.
L’epopea della Resistenza è stata in tutta l’Europa la risposta alla frustrazione degli sconfitti, un immaginario riscatto del proprio onore militare. Mai ha avuto, o avrebbe potuto avere, alcuna efficacia sulla vittoria. E infatti perfino i comunisti che progettarono l’attentato di via Rasella si rendevano conto che la cosa non avrebbe avuto alcun peso militare. Essi intendeva scuotere la popolazione dal suo “torpore”, inducendola a reagire (come?) e a non attendere passivamente la “liberazione” da parte delle truppe alleate. Ma queste parole appartengono alla letteratura, se non alla retorica, e certo non fanno il peso contro il sangue di 335 innocenti.
Purtroppo i comunisti avevano allora come regola un certo disprezzo per la vita umana. Stalin non massacrò milioni di Kulaki per il piacere del massacro, ma perché resistevano alla sua rivoluzione agraria. Essi potevano morire di fame oppure essere deportati o uccisi perché la riforma valeva più di tutti loro. La vita umana (naturalmente altrui) non pesava nulla, di fronte al trionfo del socialismo reale. O comunque dello scopo che ci si era prefissato.
In realtà, nel 1944, si combatteva con ben altre armi. Lo stesso De Gaulle, quando ha pensato di organizzare le Forces Françaises Libres, l’ha fatto in termini militari. E quando entrò per primo a Parigi lo fece con la “Deuxième Blindée”, una divisione blindata. Era così che si vinceva allora, sul campo di battaglia, non con gli attentati, che sono l’equivalente bellico del terrorismo.
Gianni Pardo, pardonuovo.myblog.it
4 maggio 2016
