LE AZIONI MILITARMENTE UTILI – di Gianni Pardo

L’attentato di via Rasella, a Roma, fece trentatré vittime fra i “tedeschi” (erano di Bolzano) più altri feriti, e due italiani innocenti. I tedeschi reagirono con il massacro delle Fosse Ardeatine, in cui furono uccisi dieci italiani per ogni tedesco, più cinque per errore. Senza quella feroce rappresaglia, l’attentato sarebbe stato forse dimenticato, ma 335 persone ammazzate sono troppe, e l’episodio si è trasformato in un doloroso monumento alla Resistenza.

Secondo il parere unanime dei giuristi militari che si occuparono di questa vicenda (a cominciare da quelli inglesi), ai sensi della Convenzione dell’Aia del 1907 gli attentati contro le forze militari occupanti un territorio erano illeciti. In questi casi la rappresaglia – sempre secondo le leggi di guerra, anche attuali – è normale. Dunque i membri del Gruppo d’Azione Partigiana che pianificarono e attuarono quell’azione sapevano di doversi aspettare una reazione. Magari non immaginavano la morte di oltre trecento persone, ma certo giocavano sulla pelle altrui. Ciò malgrado, nell’incontrastabile retorica resistenziale, si è volenterosamente dimenticato che essi sono stati la causa diretta della rappresaglia e sono stati considerati valorosi combattenti. Il massacro delle Fosse Ardeatine è stato addebitato esclusivamente alla ferocia nazista, quasi fosse stato del tutto immotivato. È stato eccessivo, ma non immotivato. E per giunta quelli che l’hanno attuato hanno ottenuto che fosse meno grave di ciò che chiedevano Hitler ed altri militari tedeschi.

La rappresaglia fu giustificata, ma ne rimane discutibile la modalità. Personalmente non sono mai riuscito a fare completa luce sulla legge del tempo, riguardo al numero delle vittime previsto. Ma in materia di conflitti c’è un punto più conducente delle stesse norme stabilite con le varie Convenzioni di Ginevra: il fatto che la guerra è un fenomeno sociale eterno, più legato all’etologia della specie umana che al diritto.

La guerra è una cosa tremenda. In essa viene meno ogni freno morale, giuridico o semplicemente umano. Ciascuno agisce come gli conviene, anche in modo criminale. Per giunta, recentemente (XX Secolo) la guerra “di annientamento” ha ripreso la mentalità delle invasioni barbariche. Non si è più trattato soltanto, come un tempo, di piegare la volontà del nemico: in qualche caso si è voluto sterminarlo o renderlo schiavo, come intendeva fare Hitler con gli slavi. E quando si è magari trattato soltanto di costringerlo alla resa, lo sterminio dell’intera popolazione è stato efficacemente minacciato, con le bombe di Hiroshima e Nagasaki. Naturalmente, se allora il Giappone avesse avuto la possibilità di distruggere in un solo colpo l’intera California, l’avrebbe fatto.

Ciò pone un interrogativo: se non c’è modo di resistere, qual è la risposta giusta? È chiaramente quella che Hiro Hito impose ai suoi: la resa. L’ “economia di guerra”, già esplicitata da Clausewitz, è chiara: se, con un mio danno di valore dieci, provoco al nemico un danno di valore venti, l’azione mi conviene; se provoco un danno che vale dieci, e ne subisco uno che vale venti, l’azione va evitata. Proprio in base a questa logica, qualunque attentato contro le forze occupanti è, prima che illecito, semplicemente stupido. Non soltanto non avvicina la vittoria ma provoca più sofferenze alla popolazione che ai militari nemici. Questi infatti fruiscono di una schiacciante superiorità militare, nei confronti della popolazione.

L’epopea della Resistenza è stata in tutta l’Europa la risposta alla frustrazione degli sconfitti, un immaginario riscatto del proprio onore militare. Mai ha avuto, o avrebbe potuto avere, alcuna efficacia sulla vittoria. E infatti perfino i comunisti che progettarono l’attentato di via Rasella si rendevano conto che la cosa non avrebbe avuto alcun peso militare. Essi intendeva scuotere la popolazione dal suo “torpore”, inducendola a reagire (come?) e a non attendere passivamente la “liberazione” da parte delle truppe alleate. Ma queste parole appartengono alla letteratura, se non alla retorica, e certo non fanno il peso contro il sangue di 335 innocenti.

Purtroppo i comunisti avevano allora come regola un certo disprezzo per la vita umana. Stalin non massacrò milioni di Kulaki per il piacere del massacro, ma perché resistevano alla sua rivoluzione agraria. Essi potevano morire di fame oppure essere deportati o uccisi perché la riforma valeva più di tutti loro. La vita umana (naturalmente altrui) non pesava nulla, di fronte al trionfo del socialismo reale. O comunque dello scopo che ci si era prefissato.

In realtà, nel 1944, si combatteva con ben altre armi. Lo stesso De Gaulle, quando ha pensato di organizzare le Forces Françaises Libres, l’ha fatto in termini militari. E quando entrò per primo a Parigi lo fece con la “Deuxième Blindée”, una divisione blindata. Era così che si vinceva allora, sul campo di battaglia, non con gli attentati, che sono l’equivalente bellico del terrorismo.

Gianni Pardo, pardonuovo.myblog.it

4 maggio 2016

IL PENSIERO NEBBIOSO di Gianni Pardo

Chi è abituato a capire vive con una sorta di sconforto l’esperienza di non capire. Per esempio, quando si scontra col mistero del pensiero di Hegel o di Jacques Lacan. Ma prima di chinare la testa ognuno ha il diritto di chiedersi: “Non sto comprendendo un pensatore o non sto aderendo alla predicazione di un profeta? Sono io, che ho le idee confuse, o le aveva lui?”

Naturalmente, bisogna andarci piano. Ci sono molte persone che il pensiero di Hegel lo hanno capito: i professori di filosofia, ad esempio. Diversamente non potrebbero insegnarlo. E per quanto riguarda Lacan in passato ci sono state intere legioni di lacaniani. Sicché colui che non capisce qualche pensatore “oscuro”, come Eraclito, deve innanzi tutto chiedersi: “Sono io che non capisco, o sono gli altri che credono di avere capito e non hanno capito niente?”

La prima ipotesi è di gran lunga la più seria. Come disse una volta qualcuno, “è improbabile che tutta l’intelligenza del mondo si sia rannicchiata nel mio cervello”. Ma la seconda ipotesi non è sicuro che sia falsa: e questo è importante. Qualche principio per orientarsi sarebbe dunque utile.

Dinanzi ad ogni mistero, bisogna chiedersi se si sia attrezzati per affrontarlo. Moltissimi sono disarmati dinanzi ad un’espressione matematica: e qui non c’è nessun mistero, c’è solo incompetenza. E poiché non si può essere competenti in tutto, bisognerà accettare ciò che dicono i matematici, i chimici, i medici, e gli specialisti in genere. Ma “accettare” non significa “dichiarare vero”, significa “riferire come accettato dai competenti”: e questo è lo schema delle “verità scientifiche”, valide fino a prova del contrario.

Proprio in questi giorni si è parlato di particelle che si spostano nello spazio “più veloci della luce”, cosa che un certo Albert Einstein – dinanzi al quale ci eravamo inchinati – aveva dichiarato perfettamente impossibile. Quelle particelle sono effettivamente più veloci della luce? A questa domanda non siamo tenuti a rispondere. E neanche a quest’altra: “Si può eludere la legge di gravità?” Al massimo si potrà dire: “Per quello che ne so, fino ad oggi no”.

Ma proprio questo esempio conduce ad un secondo principio. Se qualcuno dice che è stato trovato il modo di sospendere la legge di gravità bisogna soltanto ridere. Perché, se fosse vero, la notizia non sarebbe data al bar, da quel signore, ma farebbe più volte il giro del mondo nella prima mezz’ora. Abbiamo tutti il dovere di un sano scetticismo. È dunque lecito rigettare risolutamente, fino a prova del contrario, tutto ciò che appare assurdo.

Ma come comportarsi nei confronti di ciò che non si capisce chiaramente? Posto che si sia accettabilmente alfabetizzati, tanto da essersi fatta un’idea di ciò che pensavano Socrate e Machiavelli, Tommaso d’Aquino e Nietzsche, quando si incontra un pensiero “nebbioso” si ha tutto il diritto di dire: “Non ho capito ma non per questo ci credo”. È sciocco accettare una verità solo perché altri ci dicono che è una verità. Fede significa fiducia, non razionalità.

Per millenni e millenni si è parlato del cielo come di qualcosa che stava sopra di noi, un posto in cui andavano le anime dei morti e in cui risiedeva Dio. Ma con la terra tonda il cielo non è più sopra di noi. È anche a destra, a sinistra ed anche sotto di noi, dall’altra parte del globo. Inoltre sappiamo che se la terra avesse il raggio di un metro, l’atmosfera non raggiungerebbe il millimetro: il resto è freddo vuoto siderale. Dove sono le anime? A questo punto qualcuno risponde: “Il cielo di cui si parla qui è un cielo spirituale” e il pensiero nebbioso raggiunge il suo culmine. Perché richiesti di spiegare che cos’è un “cielo spirituale” nessuno è in grado di dirlo. Anche se qualcuno se la cava con una petitio principii: “Il cielo spirituale è quello in cui ci sono le anime dei morti e in cui c’è Dio”. Ragionamento che somiglia a quelli che dicono: “Lo yeti esiste. La prova è che ne stiamo parlando”.

Ecco perché il pensiero di Hegel può non convincere. Troppe delle sue affermazioni sono dogmatiche e contrarie all’esperienza. Tesi, antitesi, sintesi? E se un coniglio è la tesi, qual è l’antitesi? La lepre o la balena? E come si dimostra che tutto è pensiero? Ecco perché l’uomo di buon senso, a Bisanzio, non avrebbero sostenuto che gli angeli erano maschi o femmine ma avrebbe chiesto: “Che prova avete, che esistano?”

Dopo tutto questo rimane probabile che Hegel abbia detto cose intelligentissime. Ma questo non deve indurci a definirle tali: perché non avendole capite non abbiamo il diritto di dare un giudizio su di esse.

11 gennaio 2012

Cattolico a modo mio – di Gianni Pardo

Per i protestanti uno dei capisaldi della dottrina è la libera interpretazione delle Scritture; per i cattoli­ci l’unica lettura corretta è quella che impone la Chiesa. Il Cattolicesimo è una religione minuziosamente codificata: i suoi principi sono immutabili; il Papa è infallibile quando parla ex cathedra; chi nega anche uno solo dei dogmi (“verità di fede”) è un eretico. Fino al 1949 era lecito pensare che le ossa di Maria Vergine fossero essere da qualche parte in Palestina, dal 1950 (proclamazione del dogma dell’As­sunzione), chi lo pensasse sarebbe eretico. In materia di fede la Chiesa Cattolica non lascia nessuno spazio per la libertà intellettuale. Il ragiona­mento puramente logico è chiamato libero pensiero ed è condan­nato. Una simile istituzione non piace? Nessuno è obbligato ad essere cattolico. Nessuno però può pretendere di appartenere ad una data chiesa se non sottostà alle sue condizioni. Il divieto di mangiare carne di maiale sarà pure stupido ma la religione islamica l’impone: dunque chi vuol essere un musulmano osservan­te non può consumarla.

Sbaglia chi dice: “Sono cattolico ma a modo mio. Non credo a tutto quello che dicono i preti”. Infatti così si confessa  protestante: quegli eretici che negano l’autorità papale e alcuni sacramenti.

La Chiesa sa di avere una dottrina rude e poco attuale. Se la mostrasse nella sua nuda natura, ben pochi oserebbe­ro proclamarsi cattolici. E infatti i preti giocano sull’equivoco: questi due giovani hanno fatto l’amore? E allooora! Deus Caritas est. Se Dio è amore, l’amore non è peccato. Bella battuta, ma confonde Caritas e scopate. Per la dottrina il sesso fuori dal matrimonio è peccato mortale e l’assoluzione si può ottenere solo promettendo seriamente di non commettere più lo stesso peccato. O i parroci possono abrogare il Decalogo? Purtroppo la Chiesa di base tende ad un successo quantitativo: preferisce migliaia di finti fedeli che vivono da pagani a pochi veri credenti, segno di contraddizione.

“Ma forse la dottrina della Chiesa si è evoluta”, azzarda qualcuno: e invece per le questioni di dottrina la  dottrina della Chiesa non può evolversi. Il celibato dei preti è una tradizione e domani la Chiesa potrebbe permettere ai preti di sposarsi: ma né domani né mai la Chiesa potrà rinunciare alla Trinità. O perfino all’assunzione in cielo del corpo di Maria. Perché secondo la dottrina della Chiesa i dogmi sono proclamati su ispirazione dello Spirito Santo ed è difficile immaginare Dio che cambia opinione e dice: “Scusatemi, ho sba­gliato”.

Quando Paolo VI ha riaffermato la verità dell’Inferno senza fine molti si sono scandalizzati: una simile spietatezza era fuori moda e molti la davano per assurda. Invece l’Inferno è citato nel Credo e questo testo (simbolo di Nicea) è tecnicamente una lista di verità di fede per distinguere i cristiani dai non cristiani. La Chiesa le sue opinioni le ha enunciate come verità immutabili ed ha anche stabilito che non poteva sbagliarsi.

Molta brave gente crede che basti essere persone per bene per essere buoni cattolici. E questa è una grossa bestialità. Non solo morale e religione non sono la stessa cosa ma possono entrare in conflitto. Abramo che si appresta a sacrificare l’attesissimo e diletto figlio Isacco viola la più importante delle leggi morali (non uccidere, il proprio figlio per giunta), ma Abramo è un patriarca proprio perché obbedisce al comando divino. Il messaggio è: non è giusto fare ciò che è giusto, è giusto fare ciò che Dio ordina. Dovendo scegliere fra la norma morale e la norma religiosa il cattolico deve scegliere la norma religiosa. E non solo nei lontani tempi biblici: oggi un uomo deve cercare di avere figli, anche se poi non avrà di che nutrirli? Per la Chiesa sì, non ci sono dubbi. L’uso del preservativo è pecca­to mentre il fatto che una nidiata di bambi­ni muoia di fame non è peccato: è un problema da lasciare alla Divina Provvidenza.

Rimane certo possibile essere buoni cattolici. Basta astenersi dal sesso fuori dal matrimonio. Basta non divorziare. Basta, se separati, rinunciare al sesso fino alla morte (cinquant’anni di castità), senza neppure il conforto dell’auto-soddisfazione.  E comunque il buon cattolico deve rinunziare a qualunque cosa pur di non perdere la messa la domenica: qualunque cosa è infatti meno importante di un peccato mortale che in quanto tale conduce all’inferno. Quanta gente segue questo precetto?

Il Cattolicesimo è una religione incapace di convivere quietamente con tutti i nostri inte­ressi e i nostri capricci. Perché pretendere allora di essere cattolici, se non lo si è?

 

La storia del canestro – Gianni Pardo

Si legge sui giornali che a Dallas un allenatore, Micah Grimes, ha condotto la sua squadra femminile di basket a vincere contro la squadra avversaria col punteggio di cento a zero e poi è stato licenziato perché ha rifiutato di scusarsi con le perdenti.

I greci erano del parere che chi vinceva era moralmente migliore del perdente, diversamente gli dei non l’avrebbero favorito; nella mentalità del Bushido, codice morale dei guerrieri giapponesi, il nemico che si arrendeva meritava il disprezzo perché non era morto combattendo, ma nei tempi recenti le cose sono cambiate. Oggi bisogna chiedere perdono se si vince umiliando l’avversario. L’occidentale si vergogna della propria superiorità passata e presente. Delle crociate e della conquista dell’America latina vede solo i lati negativi. Ad ogni piè sospinto si precipita a sottoscrivere le accuse più inverosimili in materia di colonialismo. Arriva a farne una teoria: la civiltà romana o greca da un lato, la civiltà bantù o kikuyu dall’altro, sono solo “diverse”. Non si deve dire che Aristotele non ha il suo corrispondente in lingua swahili: qualche stregone potrebbe sentirsi discriminato.

Ogni eccesso è un errore e soprattutto non bisogna trasformare la magnanimità in un dovere. Se un generale vince una battaglia può generosamente cercare scuse al collega battuto: può parlare di diversità di armamenti, di fattori imprevisti o addirittura di fortuna, ma quell’eventuale atteggiamento è solo una forma di eleganza: in realtà, come ha scritto Tucidide, “nessun vincitore crede mai alla fortuna”. E comunque quelle parole non danno affatto al vinto il diritto di prenderle sul serio. Chi ha perso, se vuole avere la stessa eleganza del vincitore, deve solo dire che il campo di battaglia ha solo dimostrato chi era il migliore e che lui ha meritato la sua sorte. Se invece pretende le scuse del più forte ha un comportamento demenziale, contrario persino alla più elementare etologia.

Nel caso della squadra di basket, l’allenatore che si è rifiutato di scusarsi è una persona normale. Avrebbe dovuto farlo se le sue ragazze avessero violato qualche regola del gioco: ma così non è stato e dunque non c’era nessuna ragione di battersi il petto. Doveva piuttosto chiedere scusa l’allenatore della squadra perdente: non avrebbe dovuto accettato di giocare l’incontro con una squadra di valore tanto diverso. Chi lancia una sfida di cui non è all’altezza non merita solo la sconfitta, merita l’irrisione.

A voler concedere qualcosa alle persone di cuore, si può ammettere che Mr.Grimes avrebbe potuto compiere un gesto di pietà nei confronti delle perdenti. Avrebbe potuto per esempio – come ipotizzato – dare la colpa all’allenatore: ma che gli si imponga di scusarsi, e addirittura che lo si punisca per non averlo fatto, è troppo. È il sintomo di un mondo che non crede più a se stesso.

Gli occidentali non si attribuiscono più il diritto di vincere e si annega in un’ipocrita melassa. Oggi la retorica vuole che tutti siamo uguali: forti e deboli, giovani e vecchi, vincenti e perdenti, belli e brutti. Gli stessi minorati non sono più tali e forse i ciechi, “diversamente abili”, hanno il radar. Non sarebbe più semplice chiamarli col loro nome e cercare di non discriminarli? Né bisogna dimenticare un ultimo imperativo, cui tiene molto la sinistra: devono essere uguali anche i ricchi e i poveri, nell’unico modo possibile: rendendo tutti poveri.

In realtà le diseguaglianze sono come la legge di gravità: non si lasciano impressionare dalla political correctness. Ed è un peccato: perché diversamente  i vecchi potrebbero corteggiare le ventenni.

L’etologia è implacabile. Il pesce grosso mangerà sempre il pesce piccolo, il forte continuerà a battere il debole e l’intelligente continuerà a ridere del cretino.

Gianni Pardo, giannipardo@libero.it, piuttosto perdente che vincente.

31 gennaio 2009

DIO ESISTE? di Gianni Pardo

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DIO ESISTE?

Che cosa si penserebbe di un Congresso Filosofico Internazionale per discutere se sia meglio bere Coca Cola o Pepsi Cola? Naturalmente che i professori sono ammattiti. E questo giudizio perentorio non nascerebbe dall’irrilevanza del problema – nient’affatto secondario per le industrie interessate – ma dalla sua insolubilità. I favorevoli all’una o all’altra bevanda in fondo non potrebbero che dire: “io preferisco questa”, “io preferisco quella”.

A volte l’insolubilità dipende dal fatto che de gustibus non est disputandum, non bisogna discutere dei gusti, a volte il problema, pure razionale (il riscaldamento della Terra è di origine antropica?), è insolubile nel senso che non c’è una dimostrazione che convinca pressoché tutti.

Il problema dell’esistenza di Dio è razionale ma rimane razionalmente insolubile. A questa conclusione è giunto Immanuel Kant (che pure personalmente era credente) e da allora si è smesso di accapigliarsi. Chi vuole credere crede, chi non vuole credere non crede.

C’è di più. Credere o no nell’esistenza di un Dio provvidenziale – che, diversamente dal Dio di Aristotele, si occupa di noi esseri umani – non è una questione meramente metafisica. Chi crede ha qualcuno cui rivolgersi, in caso di bisogno; può sperare che la morte non sia definitiva; può pensare che malgrado tutto Qualcuno dirige il destino dell’umanità; che alla fine ci sarà giustizia per tutti. Dunque rinunciare al Dio cristiano non sarebbe, per molti, solo cambiare un’idea ma modificare in senso pessimistico l’intera visione della vita. L’ateo infatti è un orfano. Proprio per questo l’iniziativa di scrivere sugli autobus la frase: “La cattiva notizia è che Dio non esiste, quella buona è che non ne hai bisogno” è in larga misura insulsa. Gli atei sprecano i loro soldi. Nessuno cambierà opinione per aver letto quella pubblicità. I bacchettoni si indigneranno, come se fosse sconveniente mettere in dubbio l’esistenza di Dio, per giunta facendo dell’umorismo, i normali credenti, se persone di spirito, sorrideranno e basta.

L’episodio è una buona occasione per osservare che le idee religiose e le idee politiche si presentano ai loro portatori con connotati di tale evidenza da indurre all’intolleranza. Il credente non si capacita che si possa essere atei e il liberale che si possa essere comunisti: per questo tutti credono che, con qualche buona argomentazione, si metterà l’altro con le spalle al muro. E invece ciò non avviene mai. Capita che ci si converta da un’ideologia a quella opposta, ma la cosa avviene per ragioni esistenziali e lungo un arco di tempo notevole. L’illuminazione sulla via di Damasco o è leggenda o è un caso raro. Tutto ciò che è legato all’affettività – e Dio sa se la religione e la politica lo sono – è estremamente vischioso. Ecco perché i trattamenti psicoanalitici durano tanto: non si tratta di spiegare al nevrotico il meccanismo del male di cui soffre, si tratta di ricondizionarlo dal punto di vista affettivo. Ecco un esempio (di Michel de Montaigne) che vale per tutti: se dovessimo imparare a camminare su una tavola fra due edifici, al quarto piano, non basterebbe certo spiegarci che, così come sapremmo farlo se quella tavola fosse posata per terra, nello stesso modo possiamo farlo a quell’altezza. Per impararlo – ammesso che ci riusciamo – avremmo bisogno di un bel po’ di tempo. L’intelligenza e l’emotività conducono spesso a conclusioni diverse ed è praticamente sempre la seconda a prevalere.

Non vorremmo che l’iniziativa dimostrasse che gli atei, oggi, cominciano ad avere l’atteggiamento tendenzialmente intollerante di chi si indigna per il fatto che gli altri la pensino diversamente. Deprecano, con ragione, l’Inquisizione perché voleva imporre a tutti di credere e vorrebbero suggerire di non credere? Forse la frase giusta sarebbe stata: “Dio esiste? Dio non esiste? Affari vostri”.

15gennaio 2009

DIO ESISTE?

di Gianni Pardo

DIO ESISTE?

Che cosa si penserebbe di un Congresso Filosofico Internazionale per discutere se sia meglio bere Coca Cola o Pepsi Cola? Naturalmente che i professori sono ammattiti. E questo giudizio perentorio non nascerebbe dall’irrilevanza del problema – nient’affatto secondario per le industrie interessate – ma dalla sua insolubilità. I favorevoli all’una o all’altra bevanda in fondo non potrebbero che dire: “io preferisco questa”, “io preferisco quella”.

A volte l’insolubilità dipende dal fatto che de gustibus non est disputandum, non bisogna discutere dei gusti, a volte il problema, pure razionale (il riscaldamento della Terra è di origine antropica?), è insolubile nel senso che non c’è una dimostrazione che convinca pressoché tutti.

Il problema dell’esistenza di Dio è razionale ma rimane razionalmente insolubile. A questa conclusione è giunto Immanuel Kant (che pure personalmente era credente) e da allora si è smesso di accapigliarsi. Chi vuole credere crede, chi non vuole credere non crede.

C’è di più. Credere o no nell’esistenza di un Dio provvidenziale – che, diversamente dal Dio di Aristotele, si occupa di noi esseri umani – non è una questione meramente metafisica. Chi crede ha qualcuno cui rivolgersi, in caso di bisogno; può sperare che la morte non sia definitiva; può pensare che malgrado tutto Qualcuno dirige il destino dell’umanità; che alla fine ci sarà giustizia per tutti. Dunque rinunciare al Dio cristiano non sarebbe, per molti, solo cambiare un’idea ma modificare in senso pessimistico l’intera visione della vita. L’ateo infatti è un orfano. Proprio per questo l’iniziativa di scrivere sugli autobus la frase: “La cattiva notizia è che Dio non esiste, quella buona è che non ne hai bisogno” è in larga misura insulsa. Gli atei sprecano i loro soldi. Nessuno cambierà opinione per aver letto quella pubblicità. I bacchettoni si indigneranno, come se fosse sconveniente mettere in dubbio l’esistenza di Dio, per giunta facendo dell’umorismo, i normali credenti, se persone di spirito, sorrideranno e basta.

L’episodio è una buona occasione per osservare che le idee religiose e le idee politiche si presentano ai loro portatori con connotati di tale evidenza da indurre all’intolleranza. Il credente non si capacita che si possa essere atei e il liberale che si possa essere comunisti: per questo tutti credono che, con qualche buona argomentazione, si metterà l’altro con le spalle al muro. E invece ciò non avviene mai. Capita che ci si converta da un’ideologia a quella opposta, ma la cosa avviene per ragioni esistenziali e lungo un arco di tempo notevole. L’illuminazione sulla via di Damasco o è leggenda o è un caso raro. Tutto ciò che è legato all’affettività – e Dio sa se la religione e la politica lo sono – è estremamente vischioso. Ecco perché i trattamenti psicoanalitici durano tanto: non si tratta di spiegare al nevrotico il meccanismo del male di cui soffre, si tratta di ricondizionarlo dal punto di vista affettivo. Ecco un esempio (di Michel de Montaigne) che vale per tutti: se dovessimo imparare a camminare su una tavola fra due edifici, al quarto piano, non basterebbe certo spiegarci che, così come sapremmo farlo se quella tavola fosse posata per terra, nello stesso modo possiamo farlo a quell’altezza. Per impararlo – ammesso che ci riusciamo – avremmo bisogno di un bel po’ di tempo. L’intelligenza e l’emotività conducono spesso a conclusioni diverse ed è praticamente sempre la seconda a prevalere.

Non vorremmo che l’iniziativa dimostrasse che gli atei, oggi, cominciano ad avere l’atteggiamento tendenzialmente intollerante di chi si indigna per il fatto che gli altri la pensino diversamente. Deprecano, con ragione, l’Inquisizione perché voleva imporre a tutti di credere e vorrebbero suggerire di non credere? Forse la frase giusta sarebbe stata: “Dio esiste? Dio non esiste? Affari vostri”.

Gianni Pardo giannipardo@libero.it

15gennaio 2009