LA VOGLIA DI SUICIDIO DELL’OCCIDENTE di Gianni Pardo

Ogni volta che può, Federico Rampini batte sul chiodo della volontà suicida dell’Occidente. Ed ha ragione. Infatti, se non cambia il vento, dalla volontà del suicidio al suicidio stesso la strada è diritta e in discesa.

In generale l’istinto di tutti gli esseri viventi è proprio quello della massima difesa propria e della propria prole, per la sopravvivenza della specie. Dunque l’atteggiamento autolesionista dovrebbe essere assolutamente eccezionale. E tuttavia può verificarsi, come avviene in America, che gli intellettuali, i giovani e insomma tutti coloro che seguono la corrente di pensiero più alla moda, facciano a gara a riconoscere le colpe dell’uomo bianco, anche le più inverosimili ed anche le più impensate, fino a voler cancellare dalla storia (come una vergogna) personaggi come Cristoforo Colombo. Il quale, poverino, ha sì scoperto l’America, ma non ha mai nemmeno sospettato di avere commesso questo misfatto.

La spiegazione di un simile fenomeno potrebbe essere non un affievolimento dell’istinto di conservazione, quanto la perdita della coscienza della necessità di difendersi. Per intenderci: se ci si avvicina ad un predatore che sta mangiando la sua preda (per esempio un leone) quello reagisce con minacce e, se insistiamo, con attacchi. Perché nella savana c’è poco da essere generosi: sazietà significa sopravvivenza e digiuno può significare morte. Viceversa il bambino della famiglia ricca darà facilmente una parte della sua brioscina, o anche l’intera brioscina ad un altro bambino: in primo luogo perché è già sazio e in secondo luogo perché sa che, se ne chiede un’altra a mammina, l’otterrà immediatamente. La sua generosità nasce dalla certezza che non mancherà di quel bene.

Venendo al tema che ci interessa: come mai i giovani universitari americani sono tanto anti-americani? Sanno di poterlo essere perché quella stessa America che loro disprezzano gli consente anche questo lusso. Quando si è sicuri di vivere in una democrazia veramente solida, ci si consente anche di dirne male, di contestarla, di condannarla sul piano economico e sul piano morale perché, mentre la mossa appare coraggiosa (loro chiamano questo «lottare»), in realtà non si corre alcun rischio. Neanche quello di un comportamento in linea con le loro idee. I giovani condannano gli Stati Uniti perché hanno rubato il territorio agli indiani d’America, ma nessuno li sloggerà dagli States e certo loro non andranno a vivere in Rwanda per fare più spazio ai pellerossa. Insomma la moda dell’autofustigazione imperversa perché è gratificante sul piano morale e nel contempo priva di costi. È come se ad ogni occasione e su qualunque argomento questi giovani moralizzatori dicessero: «Avete visto come sono capace di riconoscere le responsabilità, le malefatte, i torti dell’uomo bianco? Ecco, in nome di tutti i bianchi, confesso i nostri torti e comprendo il vostro rancore. Anzi, lo condivido, anzi lo grido. Sarò pure americano ma sono anti-americano». Dopo di che, perdono forse il passaporto? No. Cambiano stile di vita? No. Si privano di qualcosa – anche se inquinante – che fa parte delle loro comodità? No. Nessuno fa tre chilometri a piedi pur di non immettere anidride carbonica nell’atmosfera, con l’automobile.

In fondo moltissimi credono che le loro idee – l’ecologismo che vieta tutto, il misoneismo, l’orrore per il progresso – siano una novità e non sanno che esse sono in realtà un rigurgito del rousseauismo settecentesco. È stato Rousseau che ha lanciato il mito del buon selvaggio, che vive nella Natura secondo le leggi della Natura. Ovviamente non è che Rousseau fosse un etnologo, si trattava di una sua fantasia. Se solo fosse andato in Papuasia avrebbe visto che in realtà il buon selvaggio non è poi tanto buono, anche perché conduce una vita stenta, difficile e pericolosa. Prova ne sia che raramente riesce ad invecchiare. Il buon selvaggio non ha un buon riparo, non ha buoni mezzi per difendersi dalle intemperie, non dispone della medicina se sta male. Detto in breve: una settimana di vita da buon selvaggio, e per chiunque il mito svanirebbe.

Ciò malgrado esso prospera da sempre. Perfino Maria Antonietta, per sacrificare alla moda, andò a mungere le vacche al Petit Trianon (salvo errori) nei giardini di Versailles. Come sempre, il mito del ritorno alla Natura tanto più attecchisce, quanto più si vive nel benessere. Moltissimi stramaledicono il cellulare che danneggia i rapporti umani piuttosto che favorirli, ma provate a privarli del cellulare per mezza giornata.

La moda di attribuire tutte le colpe all’uomo bianco e al mondo che egli ha creato (un mondo per entrare nel quale in migliaia rischiano la vita nel Mediterraneo o nella frontiera messicana) è soltanto l’ultimo lusso dell’uomo bianco: così egli non ha soltanto la vita più comoda, ma anche l’illusione della più alta sensibilità morale.

LA PACE NATA DALLE FRONTIERE INTANGIBILI

di Gianni Pardo

Può darsi che la Russia, se vince la guerra, si appropri di una parte dell’Ucraina, ma nondimeno – col tempo ce ne accorgeremo tutti – ha aperto il vaso di Pandora.

Dopo la guerra del 1870 si firmò una pace che attribuiva alla Germania vincitrice l’Alsazia e la Lorena. Una pace che la Francia firmò ma non accettò mai, prova ne sia che aspettò oltre quarant’anni il momento della rivincita, che si ebbe con la Prima Guerra Mondiale. Anche questa si concluse con una pace, che stavolta lasciò scontentissima la Germania, umiliata e sottoposta a condizioni eccessivamente severe. Sicché anch’essa cominciò a sognare la rivincita, con le conseguenze che sappiamo.

Viceversa, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, l’orrore per la guerra, e la volontà di fare qualunque cosa perché non scoppiasse mai più, spinse tutti i Paesi ad accettare le nuove frontiere, per quanto assurde o ingiuste potessero essere. Si accettò che la Russia si appropriasse di territori polacchi orientali, compensando la Polonia con territori tedeschi orientali. Tanto che i tedeschi parlarono di scivolamento (Verschiebung) della Polonia verso ovest. E questo mentre la Polonia era, caso mai, fra i vincitori, non gli sconfitti della guerra. Né qualcuno osò protestare contro l’annessione, da parte della Russia, della Prussia orientale, capoluogo Königsberg, dove nacque e visse Kant. L’Italia perse l’Istria e la Dalmazia, e poco ci mancò perdesse anche Trieste. Ma tutti avevano la coscienza che questa costruzione, per quanto strampalata, non andava toccata a nessun costo per il bene della pace. Si permise persino che l’Unione Sovietica imponesse il suo potere a tutto l’est dell’Europa, facendone parte obbediente e sottomessa del suo impero. Tanto forte era l’esigenza di pace, che si è persino tollerata l’annessione della Crimea, senza nessuna provocazione e senza nessuna giustificazione. I pro russi dicono: «Gli abitanti della Crimea si sentono russi». Ma questo è un argomento che vale poco, diversamente qualcuno potrebbe dire che a Bolzano e a Merano si sentono austriaci, e dunque quei territori dobbiamo attribuirli all’Austria. Mentre la Svizzera dovrebbe farci il favore di restituirci il Canton Ticino, di lingua e cultura italiana. Non si finirebbe mai.

Comunque gli Occidentali hanno mostrato un’indebita pazienza quando si è trattato della Crimea, ma non hanno potuto fare altrettanto quando la Russia ha tentato di ingoiare l’Ucraina. E proprio questo è il punto.

Nel 2022 la Russia non ha soltanto violato la legge internazionale e le sue stesse promesse all’Ucraina di rispetto delle frontiere: ha distrutto il pilastro fondamentale della pace in Europa. Se la Russia può impunemente appropriarsi l’Ucraina (che si chiama Ucraina e non Russia), perché mai la Germania non potrebbe andare a riprendersi i territori e le città che prima si chiamavano Germania ed ora dovrebbero chiamarsi Polonia? E se scoppiasse una guerra generale, non è ovvio che la Polonia vorrebbe indietro ciò che è suo?

Toccare le frontiere corrisponde a scoperchiare un nido di vipere, perché tutti i Paesi hanno le loro rivendicazioni. Forse è questa la più grande mala azione compiuta dalla Russia nel 2022: nel 2024 le frontiere non dipendono più dalla volontà di pace, come fino a tutto il 2021, ma dipendono dalla forza, e questa logica è proprio quella che una volta o l’altra porta alla guerra.

Ciò è tanto vero che mentre, fino a qualche anno fa, l’Europa ingenua e pacifista sognava di abolire gli eserciti (e le spese per la difesa) ora la Germania ha ripreso a riarmarsi seriamente, e tutti sognano di costituire un esercito europeo per la difesa comune. Mentre prima si commerciava con tutti, ora gli Stati stanno attenti a distinguere i prodotti che possono importare dall’estero e quelli strategici, che bisogna essere in grado di produrre da sé, anche a costi superiori. Parliamo soprattutto degli armamenti. Si potrebbe continuare ma basterà dire che la guerra d’Ucraina ha posto fine alla mentalità irenica e sognante dell’Europa pigra, riportandola con i piedi per terra. Chissà che Ventesimo Secolo non sia finito il 24 febbraio 2022.

LA PACE NATA DALLE FRONTIERE INTANGIBILI di Gianni Pardo

Può darsi che la Russia, se vince la guerra, si appropri di una parte dell’Ucraina, ma nondimeno – col tempo ce ne accorgeremo tutti – ha aperto il vaso di Pandora.

Dopo la guerra del 1870 si firmò una pace che attribuiva alla Germania vincitrice l’Alsazia e la Lorena. Una pace che la Francia firmò ma non accettò mai, prova ne sia che aspettò oltre quarant’anni il momento della rivincita, che si ebbe con la Prima Guerra Mondiale. Anche questa si concluse con una pace, che stavolta lasciò scontentissima la Germania, umiliata e sottoposta a condizioni eccessivamente severe. Sicché anch’essa cominciò a sognare la rivincita, con le conseguenze che sappiamo.

Viceversa, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, l’orrore per la guerra, e la volontà di fare qualunque cosa perché non scoppiasse mai più, spinse tutti i Paesi ad accettare le nuove frontiere, per quanto assurde o ingiuste potessero essere. Si accettò che la Russia si appropriasse di territori polacchi orientali, compensando la Polonia con territori tedeschi orientali. Tanto che i tedeschi parlarono di scivolamento (Verschiebung) della Polonia verso ovest. E questo mentre la Polonia era, caso mai, fra i vincitori, non gli sconfitti della guerra. Né qualcuno osò protestare contro l’annessione, da parte della Russia, della Prussia orientale, capoluogo Königsberg, dove nacque e visse Kant. L’Italia perse l’Istria e la Dalmazia, e poco ci mancò perdesse anche Trieste. Ma tutti avevano la coscienza che questa costruzione, per quanto strampalata, non andava toccata a nessun costo per il bene della pace. Si permise persino che l’Unione Sovietica imponesse il suo potere a tutto l’est dell’Europa, facendone parte obbediente e sottomessa del suo impero. Tanto forte era l’esigenza di pace, che si è persino tollerata l’annessione della Crimea, senza nessuna provocazione e senza nessuna giustificazione. I pro russi dicono: «Gli abitanti della Crimea si sentono russi». Ma questo è un argomento che vale poco, diversamente qualcuno potrebbe dire che a Bolzano e a Merano si sentono austriaci, e dunque quei territori dobbiamo attribuirli all’Austria. Mentre la Svizzera dovrebbe farci il favore di restituirci il Canton Ticino, di lingua e cultura italiana. Non si finirebbe mai.

Comunque gli Occidentali hanno mostrato un’indebita pazienza quando si è trattato della Crimea, ma non hanno potuto fare altrettanto quando la Russia ha tentato di ingoiare l’Ucraina. E proprio questo è il punto.

Nel 2022 la Russia non ha soltanto violato la legge internazionale e le sue stesse promesse all’Ucraina di rispetto delle frontiere: ha distrutto il pilastro fondamentale della pace in Europa. Se la Russia può impunemente appropriarsi l’Ucraina (che si chiama Ucraina e non Russia), perché mai la Germania non potrebbe andare a riprendersi i territori e le città che prima si chiamavano Germania ed ora dovrebbero chiamarsi Polonia? E se scoppiasse una guerra generale, non è ovvio che la Polonia vorrebbe indietro ciò che è suo?

Toccare le frontiere corrisponde a scoperchiare un nido di vipere, perché tutti i Paesi hanno le loro rivendicazioni. Forse è questa la più grande mala azione compiuta dalla Russia nel 2022: nel 2024 le frontiere non dipendono più dalla volontà di pace, come fino a tutto il 2021, ma dipendono dalla forza, e questa logica è proprio quella che una volta o l’altra porta alla guerra.

Ciò è tanto vero che mentre, fino a qualche anno fa, l’Europa ingenua e pacifista sognava di abolire gli eserciti (e le spese per la difesa) ora la Germania ha ripreso a riarmarsi seriamente, e tutti sognano di costituire un esercito europeo per la difesa comune. Mentre prima si commerciava con tutti, ora gli Stati stanno attenti a distinguere i prodotti che possono importare dall’estero e quelli strategici, che bisogna essere in grado di produrre da sé, anche a costi superiori. Parliamo soprattutto degli armamenti. Si potrebbe continuare ma basterà dire che la guerra d’Ucraina ha posto fine alla mentalità irenica e sognante dell’Europa pigra, riportandola con i piedi per terra. Chissà che Ventesimo Secolo non sia finito il 24 febbraio 2022.

L’IMPERO ROMANO VISTO DALLA CALIFORNIA di Gianni Pardo

Il prof. Walter Scheidel, storico della Stanford University californiana, invece di dolersi (come fanno tutti) della caduta dell’Impero Romano, la descrive come un enorme colpo di fortuna per l’Europa. A suo dire, «La disintegrazione dell’Impero Romano liberò l’Europa dal governo di un singolo potere unificato. I monopoli imperiali fornirono pace e stabilità ma, nel continuo tentativo di mantenere lo status quo, tendenzialmente soffocarono la sperimentazione e il dissenso». Scomparso l’Impero, sostiene, le diverse forze politiche, militari, economiche e religiose furono libere di scontrarsi, combattersi e trovare compromessi. Roma ci lasciò qualche cosa di positivo: le lingue romanze, il calendario, il cemento, l’alfabeto e il diritto romano. Ed anche certe caratteristiche del Cristianesimo. Scheidel conclude tuttavia: «Il più importante contributo dell’Impero romano fu quello di essersene andato via per sempre…».
È evidente che il prof. Scheidel ed io, pur essendo probabilmente ambedue anziani, non siamo stati compagni di banco. Infatti quella che conosco io è una storia del tutto diversa. Comincerò con il sottolineare che il singolo potere unificato si ebbe dopo la morte di Augusto, e cioè per poco più di quattro secoli su tredici. Prima di Augusto il potere fu collegiale. In seguito, anche quando divenne un’autocrazia, l’Impero fu troppo grande perché i suoi massimi difetti (corruzione, complottismo, tradimenti, esazioni, ecc.) si manifestassero in regioni lontane dal Lazio. Dappertutto imperava la legge romana e, se il peculato era all’ordine del giorno, se in periferia c’era corruzione, ciò avveniva lì come a Roma e indipendentemente da Roma. Ché anzi, nei casi più gravi, i colpevoli furono puniti con la più tremenda severità: si ricordi come morì Verre. In conclusione, i cittadini dell’impero si sentivano sostanzialmente liberi, perché la politica romana fu sempre quella della tolleranza: tutti erano liberi di avere la religione di loro scelta (si ricordi l’esistenza del Pantheon), e dovevano soltanto dichiararsi fedeli a Roma. I vari popoli erano felici di avere la civiltà romana, e le loro città imitavano Roma persino nei monumenti e nei divertimenti (gli anfiteatri, le terme, ecc.). Era molto più libero un cittadino romano, teoricamente sotto una monarchia assoluta, che un cittadino sovietico, teoricamente vivente in una Repubblica. E se i barbari cercavano di penetrare nell’Impero Romano, e non di fuggirne, è perché si verificò lo stesso fenomeno che, secoli dopo, ha spinto i tedeschi dell’Est a cercare di andare all’Ovest, a rischio della vita.
Roma non ebbe mai la necessità di soffocare la sperimentazione e il dissenso. La prima perché era molto rara (ma non del tutto assente, si pensi a Plinio il Vecchio) e il secondo perché inesistente. Si era più pronti ad assassinare l’imperatore che a cercare di convincerlo di seguire una diversa politica. Sheidel immagina Roma come un impero del XIX Secolo, oscurantista per giunta, mentre non era né l’uno né l’altro. La sua scienza (per esempio nelle macchine per l’edilizia o per la guerra) era assolutamente alla punta del progresso.
Quelle di Scheidel sono fantasie spacciate per dati storici. Egli immagina inoltre che, scomparso l’Impero, le forze latenti del resto d’Europa siano state libere di combattersi e trovare compromessi. Non ha idea di quanto primitivi fossero i barbari, che infatti desideravano soltanto divenire come i romani, occupare le loro città, rendendosi padroni dell’esistente, non portando una forma nuova di civiltà. Di cui non avevano e non potevano avere la minima idea. La nostalgia dell’Impero Romano è stata una costante dell’Europa fino agli albori del Novecento. Insomma, a mio parere, il prof. Scheidel ha totalmente frainteso il mondo romano.
Ma ora facciamo l’ipotesi che l’Impero non fosse caduto e fosse durato fino ai nostri giorni. Per far questo, esso avrebbe dovuto emendarsi e migliorarsi, soprattutto in campo fiscale e militare. Sopravvivendo, esso avrebbe garantito ben più di ciò che cita Scheidel. Ecco una lista sintetica: l’Europa Unita; un’unica lingua, il latino; la separazione tra Stato e Religione; la laicità della scuola; la mancanza di razzismo; un sistema giudiziario di gran lunga superiore a quelli barbarici o medioevali; il progresso della scienza che nessuna Chiesa avrebbe intralciato; una grande potenza militare sostanzialmente pacifica, prova ne sia che già Adriano (se non mi sbaglio) decretò che non si dovevano annettere più altri territori, perché l’Impero era già abbastanza grande. Quanto all’incremento dei commerci di cui parla Scheidel, è una baggianata. Roma commerciava con la Gallia prima ancora di invaderla, figuriamoci dopo. Se i rapporti con i germani furono più difficili, questo avvenne a causa della loro difficile integrazione nell’Impero (in cui ebbero un totale successo i Galli e gli Iberici).
La vita era così prevedibile e calma (la famosa pax romana) che l’Impero, dopo la sua caduta, fu rimpianto per secoli. E i dotti continuarono a parlare e scrivere in latino ancora per una dozzina di secoli: diversamente le università non avrebbero potuto essere internazionali.
Chi sostiene questo genere di tesi lo fa per attirare l’attenzione, pronunciando una sonora bestemmia culturale, pur di vendere qualche copia in più. Come qualcuno che cercasse di dimostrare che la Regina Elisabetta era in realtà un’incontenibile ninfomane. Spazzatura, non storiografia.

Teologia e sociologia

di Gianni Pardo

In un articolo tanto breve quanto pregevole il Direttore Marino Longoni scrive che L’Europa «non è più un punto di riferimento politico e morale. Non è più un modello». Il mondo rigetta «il suo individualismo selvaggio, il nichilismo, la crisi demografica e lo sfascio delle famiglie, le derive woke e Lgbt». Gli altri Paesi «intuiscono la fragilità, l’inconsistenza, di un tessuto sociale ormai privo di valori assoluti». Tanto che – citando il prof Niall Ferguson dell’università di Harvard – Longoni conclude che non si può fondare una società stabile sull’ateismo.
La tesi è interessante e, probabilmente, ben fondata. Ma se ne può dare una diversa interpretazione. Gli altri Paesi hanno ragione quando intuiscono la nostra assenza di valori assoluti. Ma non è detto che i loro valori assoluti, anche se li tengono insieme e li rendono più pugnaci, siano migliori del nostro disorientamento. Fra i loro valori assoluti c’è spesso la totale sottomissione a Allah, nella personale interpretazione di coloro che li governano come una mandria di bestiame, mentre noi, nel nostro anarchismo, consideriamo i nostri governanti come noi, al nostro servizio per giunta, e non appena non ci piacciono pi+ù li mandiamo a casa, arrivando a prefere Eden a Churchill, subito dopo che è stata vinta la guerra. Inoltre, mentre la maggior parte di loro venera l’Uomo della Provvidenza, il dittatore di cui un Fato benefico ha valuto far dono alla nazione, l’europeo occidentale non crede alla Provviedenza e ancor meno all’Uomo della Provvidenza. La Russia di Putin sogna di rivalutare Stalin, mondandolo del peccatuccio di avere tormentato e ucciso molti milioni di uomini, gli italiani non perdonano a Mussolini l’assassinio di Matteotti, in cui oprobabilmente non ebbe parte e di cui punì, se non ricordo male, i colpevoli. Il nostro «individualismo selvaggio, la crisi demografica», ecc. potrebbero non essere un decadimento, ma il raggiungimento dell’età adulta, col recepimento dell’annuncio nietzschiano di oltre un secolo fa: «Dio è morto». E se Dio è morto, come possiamo credere in lui, come possiamo appoggiarci a lui? E se non possiamo credere in un Ente metafisico, come potrebbe credere a qualcuno che è umano come noi, e forse peggiore di noi? Molti musulmani, in Turchia, dopo ottant’anni di kemalismo, hanno creduto di liberarsi dalla decadenza occidentale. Ora le ultime elesioni mostrano che neanche Erdogan, agli occhi dei turchi, ha diritto al titolo di Uomo della Provvidenza. Forse è l’Uomo dell’Inflazione senza Freni.
Da un lato dunque, col rinnegamento del padre, abbiamo raggiunto l’età adulta, dall’altro non siamo abbastanza maturi per adattarci ad un mondo senza Dio. O – se ci adattiamo – lo facciamo comprendendo che il nostro è un mondo senza bussola e senza speranza. L’individualismo non è selvaggio. I selvaggi fanno sempre gruppo. L’individualista è colui che ha perso i valori della comunità ed ha accettato di essere assolutamente solo sulla Terra, e per giunta molto temporaneamente. La stessa coscienza della morte, e dell’assenza di un al di là, rende l’uomo pragmatico. Se il mondo è scombinato, se gli uomini sono disorientati, insomma se la vita è assurda, che senso ha sacrificarsi per avere figli? Se non ho figli l’umanità potrebbe estinguersi. Ma che me ne importa, se si estingue? E comunque, avendo figli, gli faccio un favore o gli impongo l’insopportabile fardello di una vita in cui la maggior parte è infelice?
. Lo stesso per lo sfascio delle famiglie: non c’è più un’autorità metafisica che le tenga insieme, e i ragazzi sin dai quattordici anni vogliono essere padroni del loro destino. Anche se è per drogarsi o divenire etilisti. Loro non intendono obbedire ai genitori, i genitori non sentono il dovere/diritto di educarli, e la società va un po’ alla deriva. Ma chi dice che questa deriva non sia l’unica conclusione filosofica da trarre da una società senza trascendenza? Il soprannaturale che tiene insieme i popoli non evoluti è un mito: non è comunque un progresso essersi liberati da un mito?

Teologia e sociologia di Gianni Pardo

In un articolo tanto breve quanto pregevole il Direttore Marino Longoni scrive che L’Europa «non è più un punto di riferimento politico e morale. Non è più un modello». Il mondo rigetta «il suo individualismo selvaggio, il nichilismo, la crisi demografica e lo sfascio delle famiglie, le derive woke e Lgbt». Gli altri Paesi «intuiscono la fragilità, l’inconsistenza, di un tessuto sociale ormai privo di valori assoluti». Tanto che – citando il prof Niall Ferguson dell’università di Harvard – Longoni conclude che non si può fondare una società stabile sull’ateismo.
La tesi è interessante e, probabilmente, ben fondata. Ma se ne può dare una diversa interpretazione. Gli altri Paesi hanno ragione quando intuiscono la nostra assenza di valori assoluti. Ma non è detto che i loro valori assoluti, anche se li tengono insieme e li rendono più pugnaci, siano migliori del nostro disorientamento. Fra i loro valori assoluti c’è spesso la totale sottomissione a Allah, nella personale interpretazione di coloro che li governano come una mandria di bestiame, mentre noi, nel nostro anarchismo, consideriamo i nostri governanti come noi, al nostro servizio per giunta, e non appena non ci piacciono pi+ù li mandiamo a casa, arrivando a prefere Eden a Churchill, subito dopo che è stata vinta la guerra. Inoltre, mentre la maggior parte di loro venera l’Uomo della Provvidenza, il dittatore di cui un Fato benefico ha valuto far dono alla nazione, l’europeo occidentale non crede alla Provviedenza e ancor meno all’Uomo della Provvidenza. La Russia di Putin sogna di rivalutare Stalin, mondandolo del peccatuccio di avere tormentato e ucciso molti milioni di uomini, gli italiani non perdonano a Mussolini l’assassinio di Matteotti, in cui oprobabilmente non ebbe parte e di cui punì, se non ricordo male, i colpevoli. Il nostro «individualismo selvaggio, la crisi demografica», ecc. potrebbero non essere un decadimento, ma il raggiungimento dell’età adulta, col recepimento dell’annuncio nietzschiano di oltre un secolo fa: «Dio è morto». E se Dio è morto, come possiamo credere in lui, come possiamo appoggiarci a lui? E se non possiamo credere in un Ente metafisico, come potrebbe credere a qualcuno che è umano come noi, e forse peggiore di noi? Molti musulmani, in Turchia, dopo ottant’anni di kemalismo, hanno creduto di liberarsi dalla decadenza occidentale. Ora le ultime elesioni mostrano che neanche Erdogan, agli occhi dei turchi, ha diritto al titolo di Uomo della Provvidenza. Forse è l’Uomo dell’Inflazione senza Freni.
Da un lato dunque, col rinnegamento del padre, abbiamo raggiunto l’età adulta, dall’altro non siamo abbastanza maturi per adattarci ad un mondo senza Dio. O – se ci adattiamo – lo facciamo comprendendo che il nostro è un mondo senza bussola e senza speranza. L’individualismo non è selvaggio. I selvaggi fanno sempre gruppo. L’individualista è colui che ha perso i valori della comunità ed ha accettato di essere assolutamente solo sulla Terra, e per giunta molto temporaneamente. La stessa coscienza della morte, e dell’assenza di un al di là, rende l’uomo pragmatico. Se il mondo è scombinato, se gli uomini sono disorientati, insomma se la vita è assurda, che senso ha sacrificarsi per avere figli? Se non ho figli l’umanità potrebbe estinguersi. Ma che me ne importa, se si estingue? E comunque, avendo figli, gli faccio un favore o gli impongo l’insopportabile fardello di una vita in cui la maggior parte è infelice?
. Lo stesso per lo sfascio delle famiglie: non c’è più un’autorità metafisica che le tenga insieme, e i ragazzi sin dai quattordici anni vogliono essere padroni del loro destino. Anche se è per drogarsi o divenire etilisti. Loro non intendono obbedire ai genitori, i genitori non sentono il dovere/diritto di educarli, e la società va un po’ alla deriva. Ma chi dice che questa deriva non sia l’unica conclusione filosofica da trarre da una società senza trascendenza? Il soprannaturale che tiene insieme i popoli non evoluti è un mito: non è comunque un progresso essersi liberati da un mito?

UNA CLASSIFICA DELLE NAZIONI di Gianni Pardo

Le nazioni del mondo non hanno tutte lo stesso peso, perché differiscono per livello economico, scientifico, tecnologico; per numero di abitanti e per spirito combattivo; per cultura, per tradizioni, ed anche per alleanze. Sicché per comprenderle, accanto ad una fittizia uguaglianza, si deve stilare una diversa classifica che tenga conto almeno degli elementi principali sopra elencati.
Uno degli elementi distintivi, fra le potenze, è il numero di abita. Infatti, se il Paese è popoloso, può mettere in campo molti uomini; se non lo è può avere delle serie difficoltà, in caso di conflitto. Non stupisce che Israele imponga il servizio militare non solo agli uomini ma anche alle donne. E non per un anno ma, credo di ricordare, per due o tre. Per non parlare dei continui aggiornamenti in tutti gli anni seguenti. Per questo Israele, malgrado i suoi nove milioni di abitanti, ha uno degli eserciti più forti e pronti al combattimento del mondo.
Ma avere molti uomini non basta, bisogna che essi dispongano di un armamento moderno, almeno all’altezza di quello dei possibili nemici. E qui cominciano i problemi. Un tempo un buon fabbro era capace di fabbricare la maggior parte delle armi, oggi le armi sono così complicate e così costose da rappresentare una branca a parte dell’economia. Non soltanto un buon fabbro non saprebbe dove mettere le mani, ma persino una moderna industria, chiamata a produrre un’arma elementare come una pistola, si arrenderebbe dinanzi alle difficoltà. Prova ne sia che la storia delle armi da fuoco è costellata di incidenti mortali, soprattutto al suo inizio. Poteva darsi che il cannone sparasse e facesse strage dei nemici, ma poteva anche darsi che, invece di partire la palla, scoppiasse l’intero cannone facendo ancora una volta una strage, ma di quelli che lo accudivano. E, quanto alle pistole, qualche anno fa la polizia di New York indisse un concorso internazionale, e nel Paese della Colt, della Smith & Wesson, della Glock e della Browning, vinse la Beretta. Ma è vero che la Beretta costruisce armi da fuoco dal 1500.
La fabbrica di armi è un sistema di tale alta tecnologia che possiamo così distinguere i Paesi. Ci sono quelli che non producono affatto armi, e le comprano. Ci sono quelli che sono arrivati a produrre armi leggere, ma non armi pesanti. Infine alcuni arrivano a costruire armi pesanti, come i carri armati, ma sono pochi. Stupisce infatti che li produca anche Israele (i famosi Merkava) ma ciò è avvenuto perché Israele, mentre è pieno di tecnici altamente specializzati, è anche molto preoccupato per la sua sicurezza. Dunque non vuole dipendere da nessuno per la fornitura della più importante arma di un moderno esercito e delle sue parti di ricambio. E tuttavia la stessa Israele non arriva all’Alta Società della produzione di armi: quella degli aerei da guerra. Quelli anche Israele è costretta a comprarli. Tanto costosa e complessa ne è la produzione. L’Europa Occidentale è riuscita a produrre un rispettabile aereo da caccia, l’Eurofighter ma, per portare a termine l’impresa, hanno dovuto consociarsi in quattro: Inghilterra, Germania, Italia e Spagna. Dopo che un pugno di Spitfire aveva vinto la guerra contro la Luftwaffe.
Nella storia dell’aeronautica ci sono anche delle nobildonne decadute. La principale di queste tristi signore è l’Italia, che per prima utilizzò l’arma aerea e si rese conto (Giulio Douhet) della sua importanza bellica. Fra le prime (in particolare insieme con la Francia) produsse aeroplani, ottenne perfino dei record, e infine si arrese.
Un posto a parte in questo campo merita la Russia, che da sempre ha preteso di stare alla pari con le massime potenze del mondo, mentre di fatto ha sempre avuto due palle al piede che nessuno può eliminare: è un Paese povero e la sua tecnologia non è all’altezza di quella occidentale. Dunque produce aeroplani da guerra, ed anche aeroplani passeggeri, ma non è che abbia chissà che successo nelle fiere internazionali. Gli occidentali sono molto preoccupati, quando salgono su un aereo passeggeri russo. La sua produzione bellica non è di alta qualità. Del resto, se non lo è nessun prodotto non bellico – come si nota dall’assenza totale del Made in Russia nei nostri supermercati – come potrebbe poi esserlo il materiale militare?
Infatti, anche se la gente non lo sa, esistono esposizioni e dimostrazioni, in cui i grandi Stati produttori di armi le espongono e le fanno agire in una simulazione di combattimento: nella speranza di venderli. Fu in una di queste che si schiantò al suolo il famoso Konkordosky che la Russia aveva costruito per fare concorrenza al Concorde franco-inglese. E ovviamente tutti i tecnici osservano con estrema attenzione tutte le guerre, perché quelle sono il migliore e incontestabile test di efficacia.
Il caso della Russia è particolarmente triste, se pensiamo che il suo pil pro-capite è meno della metà di quello italiano, che pure non è alto né come quello americano né come quello svizzero, e non arriva neppure al livello di quello francese. Dunque quando la Russia produce uno sforzo di guerra lo fa imponendo al suo popolo una pressione spaventosa: basti pensare che la spesa per armamenti è il 30% del pil (noi nemmeno il 2%) e tuttavia rimane dieci volte inferiore a quella americana. Una pressione che solo una dittatura feroce può mantenere. Ma che non reggerebbe al confronto se si scontrasse con una potenza occidentale come la Francia.
Solo che in questo caso, agli occhi degli ingenui, le parole e le minacce fanno dimenticare le realtà sottostanti.

IL FASCINO DI CIO’ CHE È STRAMALEDETTO di Gianni Pardo

Se ci fossero diecimila persone che sostengono enormità, od anche se fossero venti o trentamila, poco male. Purtroppo nella società contemporanea si potrebbe dire che c’è una percentuale della popolazione (all’incirca il 30/40%) che, ogni volta che c’è una scelta da fare, fa invariabilmente quella sbagliata. E ciò ben sapendo che la maggioranza la considera sbagliata: ma quello è un motivo in più per adottarla. Vale anche per l’astensione dal voto: molti pensano che bisognerebbe sfasciare tutto e ricominciare da capo. Come se fosse possibile. Comunque l’odio per chiunque comandi annebbia il cervello di molti e dà da mangiare a comici come Maurizio Crozza. Il fenomeno è talmente imponente che merita riflessione. E ciò che bisogna mettere bene in chiaro, sin da principio, è che esso riguarda da un lato l’umanità e dall’altro il singolo.
Nei XX Secolo questo atteggiamento ha avuto un senso, perché c’era una nuova religione, il marxismo, che ne dava una spiegazione. L’umanità era oppressa e sarebbe stata felice dopo la crisi del capitalismo e il trionfo della rivoluzione proletaria. Finché è stata viva l’utopia comunista, gli ingenui e gli stupidi hanno potuto credere che, buttando giù la Repubblica Italiana e trasformandola in Repubblica Democratica Italiana di obbedienza moscovita, tutto sarebbe andato per il meglio. Andare sempre e comunque contro il potere significava favorire l’ultima crisi del capitalismo e anticipare la rivoluzione proletaria. Oggi di tutto questo si sorride appena, dopo l’implosione dell’Unione Sovietica, e tuttavia come si spiega la persistenza di questo atteggiamento? Innanzi tutto con la storia. In Francia il popolo era sinceramente monarchico e tuttavia nel Seicento c’è stata la Fronde. Nel Settecento cattolico c’è stato l’Illuminismo. Nel periodo rivoluzionario c’è stata la Vandea. E si potrebbero trovare molti altri esempi. Il popolo si dichiara felice solo nei Paesi in cui, dichiarandosi infelice, si va in galera.
In realtà il popolo è sempre insoddisfatto ed arriva ad ipotizzare di avere un nemico che trama contro di lui. Tanto che, se lo potesse eliminare, tutto poi andrebbe bene. I governi, visto che trovano conveniente deviare su questo nemico immaginario l’animosità che già si manifesta contro di loro, incoraggiano questa credenza. E questo sistema è particolarmente caro alle dittature. Questo spiega il nazionalismo acceso, l’antisemitismo, il razzismo. Il sistema funziona tanto bene da far sì che il popolo applauda perfino una dichiarazione di guerra. Magari poi perdendola rovinosamente (caso emblematico i palestinesi e Israele). Lo stesso Hitler in questo campo merita una citazione. Sapete perché diede a credere che la Germania aggrediva la Russia? Perché non aveva il Lebensraum necessario, lo spazio vitale. Viene da sorridere ma è proprio così. Ancora oggi la Turchia geme sotto una dittatura perché Erdogan fa finta di lottare contro il suo nemico Fethullah Gülen, colpevole di ogni malefatta. Avete mai sentito parlare di lui? No. E tuttavia da solo – secondo Erdogan – Gülen può fare la rivoluzione in Turchia e rovesciarlo.
Il caso più interessante è tuttavia il modo come questo fenomeno si configura a livello individuale: il conflitto interno viene proiettato all’esterno. Il singolo disadattato – quello che da ragazzo va male a scuola, poi non riesce ad imparare un mestiere, poi è disoccupato, e infine non ha nessun tipo di successo – ha seri motivi per considerarsi un fallito. Ma arrivare a questa coscienza richiede molto coraggio. Dunque per le persone più superficiali e più disposte ad auto-ingannarsi esiste la soluzione del nemico esterno. «Non sono io che non riesco ad avere rapporti facili col resto dell’umanità, è il resto dell’umanità che sembra avercela con me. Non sono io che non ho cercato o trovato un lavoro, è che non mi è stato offerto il lavoro che avrei volentieri esercitato. L’amore? Sa Iddio se ci ho provato. Ma tutte le donne (o corrispondentemente tutti gli uomini) sono egoiste, esigenti e, per dirla in una parola, puttane (per gli uomini: farabutti, delinquenti, prevaricatori)». E via di questo passo. Sicché in conclusione questi uomini sono giustificati se ce l’hanno con l’altro sesso, con l’umanità e, per cominciare, con i concittadini. Sono contro le banche, perché le banche sono il tempio del denaro che loro non hanno. Sono contro le scuole, colpevoli di averli dichiarati inferiori. Sono contro le automobili che loro non possono permettersi, e all’occasione le bruciano nelle manifestazioni di protesta. Questi però sono piccoli sfoghi. Il nemico centrale è l’istituzione che guida la collettività e la rappresenta: lo Stato. E allora cosa c’è di meglio che attaccare la polizia, che rappresenta e difende quello Stato? L’intera umanità è coalizzata contro questo singolo, e questo singolo si sente un eroe mentre attacca lo Stato. Lo Stato lo ha schiacciato, e lui cerca di schiacciare un poliziotto. E per farlo chiama dei falliti come lui a dargli una mano. In democrazia alcuni la chiamano libera manifestazione del pensiero.
Il violento di strada è un fallito che esorcizza la sua tragedia intima esternandola e trasformandola in una vittoria sopra la collettività. Ma il fallimento, se così vogliamo chiamarlo, non si può esorcizzare. Si smette sul serio di essere inferiori quando si riesce a capire che si è meno dotati, e che l’unica soluzione per galleggiare è essere molto amabili con tutti.
Se invece ci si dà al rancore, alla depressione, al malessere personale che si scarica sul sociale, non se ne esce. Si rimane al bambino che pesta i piedi, si rotola per terra, e si rende odioso. Ma soggettivamente soffre sul serio.