VINCENT di Anna Murabito

Note irrituali sulla vita e le opere di Vincent van Gogh

 

Il mito romantico di Vincent van Gogh – malato mentale e genio incompreso – rischia di sopraffare l’attenzione che meritano le sue opere. Soprattutto crea l’illusorio rapporto causale tra follia e produzione artistica.  

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Van Gogh è un argomento inesauribile. La sua è una di quelle grandi storie che fanno scorrere fiumi di parole e migliaia di metri di pellicola. Saggi, articoli, recensioni critiche, video, documentari, film di grande fama sono stati dedicati a questo personaggio fuori dal comune. “Una specie di gigante ebbro, un genio folle e terribile, spesso sublime, qualche volta grottesco, quasi sempre svelante qualcosa di patologico…” come lo definì il critico francese Albert Aurier, suo contemporaneo.

Ci sono uomini sconfitti dalla loro stessa passione, abnorme ed eroica. Vincent Willem van Gogh (Zundert 1853 – Auvers-sur-Oise 1890) visse solo trentasette anni e dipinse quasi 900 tele, tutte negli ultimi sette anni della sua vita. Oggi il suo nome è conosciuto nel mondo intero e alcuni suoi dipinti sono stati tra i più pagati di tutti i tempi. Ma finché fu vivo nessuno o quasi si accorse di lui.

Anche se visse nell’‘800, nell’immaginario generale Van Gogh è percepito come un pittore moderno, quello che, insieme con Pablo Picasso, ha influenzato profondamente l’arte del Ventesimo Secolo. E tuttavia i due artisti sono agli antipodi. Picasso è freddo e vincente: e del resto la sua innovazione ha una matrice intellettuale. Van Gogh è un ipersensibile che si avvale del suo retroterra psicologico per creare una pittura diretta ed emotiva. Indifesa, nella sua nudità: come una ferita viva che è persino imbarazzante scoprire. Tanto che per i suoi dipinti si fa riferimento ai termini della psicanalisi: io, inconscio, angoscia.

La sua cifra è la verità senza abbellimenti e senza finzioni e forse da questo deriva la potenza del suo messaggio: penetrante e sempre riconoscibile. Davanti ai suoi dipinti parlanti da un lato si vorrebbe condividere lo sgomento e la meraviglia con il maggior numero di spettatori possibile, dall’altro si vorrebbe proteggere l’artista, evitare i contatti tiepidi e gli sguardi distratti della gente qualunque. Sentimento simile a quello che si prova ascoltando Čajkovskij e, mutatis mutandis, anche Brel: li si vorrebbe pregare di smetterla di gridare davanti a tutti.

Forse perché si è parlato tanto di Van Gogh, paradossalmente non è facile conoscerlo. Ipotesi, teorie, leggende, interpretazioni di ogni genere sono un materiale ingombrante che ha finito con l’incanalare l’attenzione prevalentemente sulla sua vita, assegnando alla sua grande pittura il ruolo di inevitabile conseguenza di un dramma esistenziale. Insomma la sua tormentata biografia viene messa in stretta relazione con la  produzione artistica. Questo  rapporto è in buona misura arbitrario.

La sua vita, conclusa con un torbido suicidio, si può riassumere nel racconto di una energia divorante, di un ardore ferito e deluso. Può interessare il  romanziere, lo psicologo, lo psichiatra e perfino il filologo: le seicento lettere a Theo, il fratello, sono un materiale ricchissimo. Tuttavia non si può affermare che essa abbia determinato un artista unico ed irripetibile: estraneo non solo agli schemi accademici, ma agli schemi tout court.   

Anche per questo non serve esplorare nel dettaglio la sua biografia: conosciamo le sue convulse vicissitudini soltanto perché Vincent è stato un grande artista. Le frustrazioni di una ricerca inascoltata (di Dio, dell’amore…) le paure, la pena senza perché con cui definiamo la condizione umana, fanno parte dell’esperienza degli uomini comuni e la maggior parte delle volte rimangono ignorate. Le risse, le droghe, l’alcool, alimentano ogni giorno la cronaca nera delle aree urbane ma non formano artisti: logorano le esistenze; non esaltano l’essere umano: ne segnano il degrado.  E la pazzia conclamata, poi, rappresenta la perdita di sé, e quindi la perdita massima: è difficile che da un “meno” così mutilante nasca un “più” così prodigioso. I manicomi saranno pieni di quadri e disegni dei pazienti; questi quadri esprimeranno certo angoscia, violenza e disperazione; avranno forse quel valore terapeutico e catartico sperato dai medici, ma non saranno per ciò stesso opere d’arte.

 Quanto a quel “dérèglement des sens” che Rimbaud cercava di sperimentare con l’aiuto di sostanze esterne, il povero Vincent lo subiva suo malgrado dall’interno. Lui che provava orrore per le crisi allucinatorie che sentiva venire. Ne avrebbe fatto volentieri a meno. Non dipingeva certo durante le crisi, caratterizzate, anche prima del culmine, da atti di autolesionismo, quali bere i colori o la trementina. E non si può dire che tracce della sua malattia mentale siano presenti in tutte le tele dello stesso periodo. Per esempio, i famosi iris (Iris) del giardino del manicomio di Saint-Rémy, non sono un dipinto drammatico o inquietante.

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Insomma non basta un temperamento ultrasensibile e appassionato, morboso e visionario fino allo scollamento dalla realtà, per “fabbricare” un artista. L’arte,  fiorita in un certo tempo e in un determinato territorio, ha delle cause che rimangono inconoscibili. Ed anche una fioritura individuale ed esplosiva come quella di Van Gogh appare misteriosa. Ma sarebbe stata misteriosa anche se egli fosse stato sano di mente.

Tra l’altro l’artista non ebbe una precoce vocazione pittorica. Sembra quasi che la pittura abbia preso il posto di quel misticismo maniacale, di quella frenesia religiosa in cui Vincent esercitò la sua energia e la sua coerenza durante la sua prima giovinezza. Le autorità ecclesiastiche, comprensibilmente allarmate, rifiutarono la sua figura di predicatore e di novello San Francesco: dormiva su un pagliericcio insieme ai minatori e tagliava i suoi abiti per farne bende per i feriti. Vincent abbandonò i suoi propositi ascetici e quel capitolo si concluse ma altri episodi di passione incontrollata ed atti di autolesionismo si susseguirono nella sua vita, indipendentemente dal suo amore per la pittura, non ancora esploso. Non solo è inverosimile che la malattia mentale abbia determinato la sua produzione artistica, ma non è andata neanche di pari passo con essa.

Lo stesso artista si esprime in termini molto pacati nei confronti della sua malattia: “…io non avrei precisamente scelto la follia, se c’era da scegliere, ma una volta che le cose stanno così, non vi si può sfuggire”. E mentre era in manicomio: Osservo negli altri che anch’essi durante le crisi percepiscono suoni e voci strane come me e vedono le cose trasformate. E questo mitiga l’orrore che conservavo delle crisi che ho avuto. Oso credere che una volta che si sa quello che si è, una volta che si ha coscienza del proprio stato e di poter essere soggetti a delle crisi, allora si può fare qualcosa per non essere sorpresi dall’angoscia e dal terrore. Quelli che sono in questo luogo da molti anni, a mio parere soffrono di un completo afflosciamento. Il mio lavoro mi preserverà in qualche misura da un tale pericolo.”.

Nei confronti dei medici mostrò apertura ed amicizia. Oltre al famoso dottor Gachet, Van Gogh fece il ritratto anche del giovane dottor Rey, che lo ebbe in cura dopo il taglio dell’orecchio. Lui stesso voleva essere ricoverato quando sentiva l’approssimarsi di una crisi. Siamo insomma ben lontani dal considerare la pazzia come una condizione esaltante e dall’avere nei confronti del manicomio gli atteggiamenti di ribellione e di disprezzo di certa corrente d’opinione contemporanea. Chi ha dimenticato: “Qualcuno volò sul nido del cuculo”?

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Forse si dovrebbe tentare di esaminare le sue opere indipendentemente dalla sua biografia. Come si fa con Saffo, con Lucrezio o con Bosch, autori a cui, per mancanza di notizie, ci accostiamo senza intermediari.

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Il primo contatto con Van Gogh lo ebbi da bambina. Mio padre portò a casa un calendario con le riproduzioni delle opere del pittore olandese. Lo sfogliai come un libro illustrato, come una favola nuova. “Era pazzo”, intervenne didatticamente il mio informato genitore, “si tagliò l’orecchio”. E, così dicendo, fece ruotare le tre dita della mano destra, nel gesto tipico: era un racconto  po’ truce, come alcune favole dei fratelli Grimm. Van Gogh, col suo strano nome, divenne una figura familiare; la storia era senza capo né coda ma mi piaceva la sua barba rossa e il suo cappello da spaventapasseri. Continuai a “riconoscerlo” nei vari volumi comprati nelle edicole, con descrizioni sommarie dei suoi dipinti (i veri e propri libri d’arte costavano troppo). Ma l’amore, quello che va oltre il gradimento e diventa unione, scoppiò ad Amsterdam. Quella volta, in una stanza appartata del museo che porta il suo nome, quasi al buio, erano esposti anche alcuni disegni di Vincent. Gli occhi dei suoi autoritratti mi inseguivano, mi imploravano di ascoltarlo, mi spiegavano la vita.

Solo dopo ho sentito l’esigenza di leggere notizie che riguardavano la sua vita. L‘approccio era stato quello giusto: quello che parte dalle opere di un artista, perché solo queste contano.

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Molte opere di Van Gogh sono variazioni sul tema dell’infelicità, della sconfitta, della frustrazione: e per questo, proprio perché l’artista ha la capacità di far pervenire il suo messaggio, esse comportano nello spettatore un forte impegno emotivo. Ci sono volte in cui il dolore, nella sindrome di Stendhal, prevale sul piacere: come quando si ascolta un brano di musica particolarmente coinvolgente.

Gli autoritratti furono i suoi soggetti preferiti, quelli che gli permisero di operare una approfondita indagine psicologica su sé stesso: “Si dice, ed io ne sono fermamente convinto, che sia molto difficile conoscere se stessi. Tuttavia, non è di certo più semplice fare il proprio ritratto”. Sono ben trentasette, da annoverare tra le sue opere più riuscite e sconvolgenti: l’artista è a tu per tu con sé stesso e col suo “male di vivere”. Con la parte più intima del suo io sconnesso e dolorante.

Ovunque l’artista si rappresenti, d’estate o d’inverno, la sua anima si porta dietro la stessa stagione di intemperie e di sgomento. Spesso l’atmosfera intorno a lui è mobile e ondeggiante come nel drammatico Autoritratto del Musée d’Orsay dove un turbine verdazzurro travolge l’aria intorno alla sua figura e invade i suoi stessi abiti.

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Qui sono i motivi astratti dello sfondo (ghirigori ed ondulazioni) a creare simbolicamente un mondo privo di requie come la tempesta in cui si muovono i lussuriosi di Dante. Vincent, rigido come un totem, sembra piantato nel centro di un universo ostile. Il viso ferino è scavato dall’ansia, contratto da rughe brutali. Gli occhi costringono lo spettatore ad un rapporto personale, obbligandolo quasi a scendere nell’abisso con lui. Non c’è posto per nessun sentimento che non sia violento e negativo.   

Nel famoso Autoritratto col cappello di paglia, il sole sembra avere asciugato il colore dei suoi occhi (che appaiono neri), insanguinato la bocca e l’orecchio visibile. La pelle ha la consistenza delle spighe e l’espressione è vagamente assente, propria di chi sta inseguendo pensieri remoti ed accaparranti. L’aria fuma intorno a lui, come esalando dai campi.

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Ha una camicia bianca e una cravatta azzurro chiaro ma, con il viso giallo canarino e i capelli ritti, sembra un uccello di palude spaventato.

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Gli occhi verdi spalancati, di una fissità angosciosa, continuano a chiedere risposte che non avranno.

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Un ritratto tra i più toccanti lo rappresenta composto e ordinato, quasi curato nell’aspetto. Sembra che cominci a respirare dopo una crisi d’asma, ma ha ancora nello sguardo implorante il ricordo di un orrore vissuto.

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Nella maggior parte degli autoritratti affiora un sentimento di inadeguatezza, una sorta di silenzio impietrito, una disperante solitudine. Si vede la pelle scorticata di chi conosce il sale e la nebbia dell’esistenza, la tristezza immensa di chi ha rinunciato a combattere ed ha coscienza della resa.

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Nella sua brevissima fioritura Van Gogh sperimentò diverse tecniche pittoriche ma tutti i dipinti si distinguono per il tratto forte, incisivo e riassuntivo. La vitalità e il dinamismo animano anche le nature morte, come ha detto qualcuno. Il movimento si accentua fino alla frenesia nei paesaggi degli ultimi anni, dove una realtà pulsante deborda negli aloni che enfatizzano il disegno, nei trattini concentrici che sottolineano i contorni della luce. Altri tratti paralleli sono solchi, incisioni,  ferite che tagliano e costruiscono l’immagine.  La terra intera sembra soffrire. Gli ulivi e i cipressi, come in fiamme, si contorcono e si dimenano. Il cielo è attraversato da chimere ondulate, ciascuna simile a un labirinto. Le linee oblique sottolineano il disequilibrio, le tinte del verde scuro e del blu fondo indicano lo sgomento di fronte alla battaglia che stravolge la notte.

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Una sorta di agitazione e di ambiguità è riscontrabile anche nei dipinti considerati “sereni”. Nella famosa Terrazza del caffè la sera, Place du Forum, Arles, gli astri che si allargano come fiori di luce sembrano più una deformazione legata alle inquietudini del pittore che una visione sognante. I colori violenti introducono note di stridore.

gogh32  Anche la nota stanza di Arles (La camera di Vincent ad Arles) è sbilenca e arbitraria, con il pavimento che scivola verso lo spettatore, i quadri obliqui alle pareti, l’assenza di una ragionevole prospettiva. E non certo per ignoranza delle sue regole.

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Questi anni sono segnati da un’attività febbrile. L’artista si affrettava, come spinto da un’urgenza improrogabile. Realizzava fino a tre tele la settimana. È inevitabile il ricordo di Guy de Maupassant: anche lo scrittore normanno si affrettava a scrivere perché sentiva che da lì a poco la pazzia, ereditaria nella sua famiglia, lo avrebbe annichilito.

La provincia francese statica e sonnolenta si è trasformata per Vincent in una fermata all’inferno. Lui stesso disse che alcuni suoi quadri erano un grido d’angoscia. Inutile didascalia.

Nell’ultimo periodo della sua vita i titoli dei suoi dipinti ci riportano al Nord. Tra questi La chiesa di Auvers, nella sua consistenza molle e gelatinosa, sembra esitare sulla collina anch’essa malferma. I colori stravolti ed il silenzio la rendono aliena ed inospitale. Non si prega in questa chiesa, quasi sinistra. Le sue finestre sono buie, e non c’è nessuno se non una donna in un angolo dello spazio esterno. Perfino i fiorellini stereotipati sembrano una decorazione dimenticata. I sentieri, segnati da linguette parallele tormentose e svianti, assomigliano a vie di fuga. Il corruccio del cielo si tocca nelle pennellate in rilievo.

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Il suo tragico disagio, implacabile come la Morte nella leggenda di Samarcanda, ha seguito l’artista per mezza Francia. Ed affiora anche in un altro dipinto realizzato – come La chiesa di Auvers – qualche settimana prima del suo suicidio: Casolari con il tetto di paglia a Cordeville.

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Qui il vento agita il cielo e gli alberi, i tetti ondulati sembrano muoversi, i colori lividi hanno dimenticato il sole. D’altra parte, a che serve il sole se i fiori del mandorlo sono destinati a cadere?

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Nessun dipinto come Campo di grano con corvi identifica Van Gogh.

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Il soggetto è del tutto riconoscibile ma esprime una realtà astratta, un sogno opprimente. Il cielo basso toglie il respiro; la distesa di grano è  un impasto scabro e accidentato; sentieri tracciati a caso non conducono da nessuna parte. La violenza del blu e del giallo introduce una disarmonia tangibile. L’intero dipinto è la rappresentazione di un’attesa funesta (sottolineata dal volo dei corvi), il sentimento di una catastrofe imminente, ciò che viene indicato col termine “angoscia”. C’è la potenza del Fato di Omero e le paure dell’uomo di tutti i tempi: dall’uomo delle caverne che vede sparire il sole all’uomo contemporaneo, confinato nella solitudine del suo io. Un sentimento di mancanza di scampo domina la scena. Nell’immobilità dell’attesa il dipinto esprime tuttavia un ritmo concitato. Le pennellate convulse vanno di pari passo con i tonfi del cuore.

Il giallo e il blu sono i colori preferiti da Van Gogh. Forse gli riuscì intollerabile l’idea che la morte allunghi le sue mani anche sullo splendore del cielo e sulla promessa di un campo di grano.

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Van Gogh modifica la realtà in funzione delle sue rappresentazioni interiori. La deformazione, quindi, non risponde ad un dettato intellettuale, come per i cubisti: è una necessità rappresentativa. Lo spettatore è costretto a partecipare agli stati d’animo dell’artista nello stesso momento in cui guarda per la prima volta i suoi dipinti. Emozione e comprensione, i due poli di cui parlava Gauguin, qui coincidono in una sorta di folgorazione visiva – perfettamente identificabile – racchiusa in un unico messaggio artistico e psicologico. Non sono la sfera, il cubo e il cilindro a dominare la scena, ma le pulsioni laceranti di Vincent, il suo sgomento di fronte alla solitudine e alla morte. La consapevolezza bruciante della vanità degli sforzi, la paura dei fantasmi scuri che attraversano la mente, che si chiamino pazzia o condizione umana.

Si firmava Vincent. La sua leggenda ha colpito a tal punto l’immaginario collettivo che molti lo chiamano così ancora oggi, quasi a volere esibire una usurpata familiarità col suo mondo colorato e ansante, imperfetto e pericoloso. La fama capillare e irrispettosa legata al suo nome arriva fino ai gadget. Ma il suo messaggio, “umano, troppo umano”, supportato da un’arte eccelsa, è fatto per essere capito dagli uomini più dell’astrazione delle “Demoiselles d’Avignon” di Picasso.  In questa capacità di comunicazione è la grandezza inarrivabile di Vincent Van Gogh, poeta del dolore, povero gigante ferito a morte.

Anna Murabito     annamurabito2@gmail.com 

CÉZANNE di Anna Murabito

Nell’elenco dei pittori felici e infelici, Paul Cézanne (Aix-en-Provence 1839-1906) è nella colonna degli infelici. Questa collocazione dovrebbe essere una sorta di garanzia: il dolore è il retroterra di tanta parte della produzione artistica. E invece per Cézanne le cose si complicano. La sua infelicità è diversa da quella inerme e dolente di Utrillo; da quella bruciante di Van Gogh; da quella implacabile e astratta di Mahler. La sua sofferenza è murata nel suo io, è aspra, incattivita, rude. È “intransitiva”, come certi verbi. Il male di vivere del pittore non diventa tramite e non apre un varco sulla condizione umana.

Cézanne è misterioso, a volte oscuro. Ho letto che quella delle sue prime opere è “una bellezza difficile”. E l’aggettivo “difficile” compare in più di una recensione, non sempre riferito alle prime opere. Quale che sia il motivo, non si riesce a trovare un’immediata consonanza con molti dei suoi dipinti. Le riproduzioni degli Impressionisti sono arrivate in tutto il mondo, tanto è chiaro e lineare il loro messaggio, e le copie delle Madonne di Raffaello erano presenti nei “capezzali” della stanza da letto della gente umile, quando magari quella stanza era l’unica della casa. Invece in giro non si vedono molte riproduzioni di Cézanne. E ciò mentre gli interventi critici e le monografie su questo autore si sprecanonon c’è collezione di libri d’arte che non comprenda un volume a lui dedicato. A detta degli esperti è un grande. Ma forse la sua grandezza è stata misurata non col metro dell’emozione ma con quello del valore storico e culturale della sua opera.

Cézanne è l’anticipatore del cubismo e della pittura astratta. E con lui comincia quel progressivo allontanamento degli artisti dal grande pubblico che ha determinato uno dei tanti fraintendimenti del Novecento: l’arte come pratica esoterica riservata agli iniziati. Che è stato un modo erudito di assassinarla. Non può essere che Šostakovič sia un grande compositore, se nessuno fischietta una sua aria. A parte il famoso valzer, che è poca cosa nella sua vastissima produzione. Può darsi che come compositore Šostakovič sia più sapiente di Verdi, e sicuramente lo è stato come sinfonista, ma il pubblico che assisteva alla prima del Nabucco si innamorò di “Va’ pensiero” e cominciò subito a cantare quel motivo così orecchiabile e colmo di pathos che a più riprese si è pensato di utilizzarlo come inno nazionale. Cosa sicuramente improponibile con una sinfonia di Šostakovič.  Čajkovskij è eccessivo, enfatico, a volte retorico, ma ha creato melodie immortali. Lo stesso inno nazionale della Russia Sovietica era di una bellezza così entusiasmante che un liberale occidentale poteva per un momento essere tentato dal comunismo.

L’approvazione dei critici e dei filologi non pesa molto. Il capolavoro non è definito né dal consenso dei critici, né dal consenso popolare. È definito dalla presenza di ambedue, come nel caso dell’Iliade e dell’Odissea. L’opera d’arte “astrusa” non andrà mai molto lontano. La bellezza “difficile” rimarrà confinata nelle pagine dei libri o nelle colte dispute degli esperti. Troppa gente non è riuscita a leggere Joyce.

Essendo l’antesignano della pittura moderna, Cézanne si è collocato in un territorio di confine. A questo si deve forse quel disorientamento che coglie esaminando le sue opere. C’è in esse l’eterogeneità di stili e di intenti tipica di chi ancora cerca e sperimenta, tanto che lo sforzo di innovazione fa passare la sua poetica in secondo piano. I dipinti corrispondono più ad un intento programmatico che a uno stato d’animo, se si esclude il desiderio di isolamento conseguenza del suo oscuro malessere esistenziale.

La biografia di Cézanne è solo apparentemente movimentata dai frequenti viaggi. In effetti è la storia di infiniti rimbalzi. Dalla Provenza si spostò molte volte per soggiornare a Parigi, a Pontoise e in altre località della Francia ma sempre ritornò in Provenza: il suo rifugio, la sua unica dimensione di lupo solitario. Non sono chiari i motivi del suo disagio. Non conobbe mai le ristrettezze economiche (il padre addirittura rilevò una banca fallita), non ebbe mai la preoccupazione di dover vendere i suoi quadri per mangiare, fece studi classici regolari, visse con Émile Zola un sodalizio (durato trent’anni) appagante sul piano affettivo e culturale, nonostante la delusione della fine. Tutti i biografi parlano di un’adolescenza felice, libera e appassionata tra gite all’aperto e scorribande – anche nel mondo della poesia – insieme all’amico Zola e a Jean-Baptiste Baille. Tra una carriera di avvocato al servizio delle attività di famiglia e i progetti di pittura, poté scegliere questi ultimi con relativa tranquillità. Ebbe contrasti col padre, è vero, ma quale padre borghese è contento di avere un figlio pittore? Eppure è descritto come un uomo tormentato e indeciso, permaloso, trasandato nel vestire, collerico, impulsivo, aspro e scontento. C’è qualcosa di non risolto nella sua mente e nella sua anima, a dispetto di una vita tutto sommato tranquilla.

Cosa cercava in una provincia retriva e bigotta qual era la Provenza alla fine dell’‘800? Non è facile entrare in sintonia con i suoi contadini (I giocatori di carte) rigidi come statue di legno: giocano a carte in una bettola, con una bottiglia di vino sul tavolo. Chi sono? Quando guardiamo “I mangiatori di patate” (Van Gogh) “L’absinthe” (Degas), o il mondo postribolare di Toulouse-Lautrec, abbiamo subito la netta coscienza di una condizione umana coinvolgente e inequivocabile, di una rappresentazione artistica senza sbavature. Non così con i contadini di Cézanne, soggetti privi di una nitida individualità. La stessa indeterminatezza si riscontra nei Fumatori di pipa che guardano nel vuoto. I loro occhi, simili a buchi neri, ricordano la “Cacciata di Adamo ed Eva” (Masaccio) della Cappella Brancacci di Firenze. Ma lì la scelta espressiva identifica il dramma, come una maschera teatrale greca. Qui i pensieri incerti e lontani dei protagonisti non si indovinano.

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A parte la rudezza dei contadini, c’è come una greve materialità in tutte le opere del primo periodo di Cézanne. Ed anche quando lo stile del pittore si è evoluto ed affinato, rimane una sorta di disarmonia, di disaccordo col mondo; un mistero da custodire o un’esperienza da nascondere che si esprime in primo luogo nella scarsità di figure femminili e di ritratti di donne. Se si escludono i numerosissimi ritratti di Hortense, la moglie, dipinta in pose ed atteggiamenti che la rendono difficilmente assimilabile ad un sogno erotico: dura, legnosa, inespressiva, senza risonanza interiore se non una tristezza più suggerita che rappresentata.

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Con gli abiti della quotidianità provinciale, è simile alla domestica (Donna con caffettiera). 

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Pare che il loro matrimonio sia stato grigio, o peggio. Oltre ai ritratti della moglie, una casta e compunta ragazza (forse Rose, la sorella) raffigurata mentre suona il pianoforte in un interno domestico (Ragazza al pianoforte), una mesta Signora in blu, una scoraggiante Donna con abito rosso. Quello che manca è un’innamorata, un’amica, un sorriso. Nei confronti delle donne reali non si scorge mai un tratto di tenerezza.

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Alcune figure femminili, Una moderna Olympia, Pastorale, Betsabea, appartengono al sogno. E la dimensione onirica consente all’autore di rappresentarle bianche, morbide e sensuali, quasi paradigma dell’eterna, irresistibile fantasticheria maschile di una donna offerta e vogliosa.

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Le altre immagini di donne e uomini (Il festino, Le bagnanti, Le grandi bagnanti, I bagnanti) turbano per una sorta di eccesso di corporeità, per le deformazioni volute e sgradevoli, per le pose scomposte e quasi simiesche. L’esecuzione sommaria e sbrigativa, prima di essere tecnica innovativa, fa pensare ad istinti primordiali, a smanie incontrollabili e inappagate. E nello stesso tempo quasi al desiderio di “liquidare” l’argomento umanità. Nella muscolarità maschile c’è qualcosa di titanico che va oltre Michelangelo e confina col brutale.

Cézanne ritornò molte volte su questo tema, allontanandosi dagli schemi classici dello studio del nudo e assimilando uomini e donne a qualunque altro elemento della natura (un tronco, un masso): un’umanità priva di un corpo anatomicamente plausibile e ancor più priva di anima. Torna e ritorna sul tema per creare una realtà alternativa, per annientare l’umanità. E non sembra solo una questione di stile. Forse il problema di Cézanne è il rapporto con gli esseri umani. E forse proprio per evitare questo rapporto si rifugia in campagna. C’è qualcosa che lo angoscia, qualcosa di cui ha paura. Ecco perché trova rassicurante dipingere innocui giocatori avvinazzati e fumatori di pipa immemori del mondo: fanno parte del paesaggio, sono silenziosi e immobili come le montagne. Sembrano soli anche quando sono in compagnia. Da loro a Paul non può venire niente di negativo. Se li può permettere. Lui, che pare non volesse essere toccato.

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Più a suo agio egli si trova nella rappresentazione pittorica dei suoi amici di sesso maschile. Gli amici li conosce e li ama. Qui c’è una confidenza che non teme il sentimento, ed ecco la malinconia degli sguardi, la presenza di un’anima individuabile. Per tutti è emblematico il ritratto di Achille Empéraire. Le gambette gracili negli indimenticabili mutandoni, le mani di un morto, la testa più grande del normale, l’espressione tenera. Sembra una creatura da circo, un nano abbandonato. Il pittore vuole sottolinearne la debolezza e il bisogno, e ha voglia di proteggerlo. Per la prima volta, dopo le immagini esagerate e violente, (La Maddalena, La donna strangolata), un dipinto che tocca il cuore. Pur rimanendo in questi ritratti, e in particolare negli autoritratti – duri,  severi, aggressivi e quasi respingenti – un tratto forte, la tendenza ad una pittura couillarde, (letteralmente con i coglioni, cazzuta, diremmo in italiano) come, con un’espressione non precisamente elegante, la definì lo stesso pittore. Si riferiva allo stile di pittura adoperato, ma è una definizione che si attaglia anche ai soggetti rappresentati.

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Oltre ai ritratti, Cézanne dipinse prevalentemente paesaggi e nature morte. Qui non c’è umanità, quindi non c’è paura né angoscia. “Isolamento: questo mi ci vuole. Così nessuno può piantarmi gli artigli addosso”. Così si esprimeva l’artista  prima di rifugiarsi al Jas de Bouffan, una tenuta acquistata dal padre e diventata la sua tana nei momenti di crisi. Fortunatamente la natura non ha artigli, per lui. Ma ugualmente la spoglia e la semplifica. Non solo la priva della presenza umana ma la riduce all’osso: elimina progressivamente anche le case e gli alberi, lasciando di essi solo qualche traccia da indovinare. Sembra voler dipingere il silenzio, ancor meglio quei “sovrumani silenzi” di Leopardi, quell’indefinibile essenza delle cose cui tendeva. Trova soggetti ancora più appetibili nei frutti, nei bricchi, nelle immobili tovaglie. Docili, eternamente pazienti. Non deve richiamarli come i modelli che costringeva ad estenuanti sedute. “Dovete essere come le mele, forse le mele si muovono?”. Sui frutti esercitava la sua ricerca di semplificazione: “Con una mela stupirò Parigi”.   

Per gran parte della sua vita cercò un successo e una considerazione che i contemporanei gli negarono. Queste frustrazioni determinarono in lui un sentimento di sconfitta, ma insieme accrebbero la sua consapevolezza di artista ed innovatore. Più si sente respinto, più nasce in lui una sorta di risentimento per chi non lo comprende e un atteggiamento di sfida. Ecco perché si presenta, anche nei ritratti, come un volitivo guerriero. Questo non lo esime dal continuare a cercare pazientemente di essere apprezzato. Cosa che avvenne nella parte finale della sua vita senza determinare particolari mutamenti nella sua esistenza. Continuò a dipingere in solitudine, come abbrutito, incurante dei ragazzi che lo irridevano per strada. Dipingeva a pennellate brevi, come tessere di un mosaico che si compone allontanandosi dal dipinto. Il suo studio, povero, era pieno di mele verdi.

La sua spinta innovativa divenne ossessione innovativa, con la ripetizione estenuante degli stessi soggetti (decine di volte dipinse la Montagna Sainte-Victoire, che vedeva da una finestra del suo studio) cercando ogni volta di  portare alle estreme conseguenze la sua ricerca: non voleva dipingere la fuggevole impressione, ma andare oltre l’apparenza per arrivare al cuore del reale, alla sua remota, ultima essenza. Ecco perché ogni quadro è diverso dall’altro, ma tutti rispecchiano lo stesso tormento.

Parlò molto di geometria nella realtà, di rappresentazione pittorica attraverso la sfera, il cilindro e il cono. Teorizzò le sue scoperte e le sue ambizioni. Queste numerose dichiarazioni spostano l’attenzione sul piano intellettuale e forse l’errore di tutto ciò che gravita intorno a Cézanne è proprio l’eccesso di intellettualità e di parole. Lui stesso parla molto: spiega, commenta, elabora. Si espone alle facili critiche: ci fu chi disse che aveva la mente confusa e non sapeva neanche lui quello che cercava.

Da quando sono nate le teorie estetiche, i cartelli, i manifesti, e le conseguenti battaglie per affermarle come ricette per le opere d’arte, sono aumentate le parole e sono diminuiti i buoni risultati. Non esiste la ricetta per il capolavoro. In realtà, un libro, un quadro, una musica non si giudicano in base ad una teoria e neanche in base alla realizzazione di quella teoria. L’arte non è teorema, non è geometria, non è filosofia. Ammesso che dipingere la Montagna Sainte-Victoire sempre più spoglia sia la cosa giusta da fare per coerenza con la teoria elaborata, poi bisogna vedere se il dipinto ha validità estetica. Perché questa è l’unica cosa che conta. E bisogna vedere se i frutti quasi informi delle Nature Morte di Cézanne siano preferiti dal grande pubblico a quelli di Caravaggio, il cui canestro (Ragazzo con canestro di frutta) è entrato anche negli stereotipi della pubblicità, alimentare e no.

Riguardo a Cézanne i critici si affannano a parlarci del rapporto tra luce e colore e della sperimentazione di una prospettiva multifocale. Dovrebbero invece dirci perché queste “invenzioni” sono da considerarsi arte, e in che misura rappresentino un progresso rispetto ai parametri classici. Dovrebbero entrare nel merito artistico delle opere, perché parlare solo di tecnica è come illustrare lo schema di un famoso sonetto – “Alla sera” del Foscolo – senza far capire perché è un capolavoro.    

Chi frequenta i musei e guarda i dipinti, non conosce né le teorie né la storia delle opere. Ed ha ragione. Non ha il dovere di sapere nulla: lui è il destinatario del messaggio, non l’interprete o l’esegeta. La pittura non si spiega, non è per i critici, come non si spiega la poesia, che non è per i letterati. Così per Cézanne è inutile ribadire la semplificazione delle sue immagini rispetto all’Impressionismo: si vede. Anche chi non è uno studioso, avverte l’innovazione, il cambiamento, la modernità delle sue opere rispetto a quelle di Monet. Ma anche questo non conta. Negli occhi rimane il verde dei suoi paesaggi silenziosi e salvifici, i frammenti di colore che vagano nell’aria e si compongono in una realtà riconoscibile e insieme sognata. “Essenza delle cose”? Non importa. Possiamo chiamare tutto questo “bellezza”. 

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Cézanne morì solo come solo era vissuto. Colto da un terribile temporale, ebbe un malore e rimase incosciente per ore sotto la pioggia. Portato a casa su un carro cercò presto di rimettersi al lavoro, incurante delle sue condizioni, ma una polmonite lo portò rapidamente alla morte. Hortense e Paul, il figlio, che erano fuggiti a Parigi per sottrarsi ai suoi eccessi di solitudine, non fecero nemmeno in tempo a ritornare.

Il contatto con Cézanne uomo lascia l’amaro in bocca. Sarà stato intrattabile e scorbutico, ma era un artista, soffriva, e si amerebbe potergli tendere la mano. Soprattutto quando non si riesce ad evitare un’onda di commozione al racconto della sua fine.

Anna Murabito    annamurabito2@gmail.com

PITTORI di Anna Murabito

I lettori del blog conoscono gli articoli contenuti in questo libro. Raccoglierli e arricchirli di numerose immagini mi ha fatto passare molti giorni a contatto con la bellezza, rischiando la nota “Sindrome di Stendhal”.

L’incontro con l’arte è un’esperienza inesauribile scandita ad ogni occasione da umori nuovi e nuove meraviglie: credo che in questo stia la sua peculiarità. Sul piano intellettuale anche il commento migliore non rappresenta mai una parola definitiva.

Ringrazio caldamente Carlo Casagni, coautore infaticabile e generoso per la parte tecnica. 

Anna Murabito  annamurabito2@gmail.com

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Echi di viaggio Vol. I

Questi racconti sono già stati pubblicati sul blog. Adesso vengono riproposti in versione digitale arricchiti di immagini ed inserti musicali. Oggi il primo sfogliabile: ECHI DI VIAGGIO Volume I

Seguirà il Secondo Volume.

A.M.

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Essere di sinistra – Gianni Pardo

Moltissime persone che votano a sinistra non sanno perché lo fanno. Ma l’ignoranza non è un’esclusiva della politica. La maggior parte delle posizioni religiose, sociali e culturali sono adottate e vissute con estrema superficialità.
Chi si dichiara di sinistra normalmente non conosce la storia di questo movimento, dal socialismo utopistico francese in poi. Non conosce le teorie di Karl Marx. Non conosce la storia politica degli ultimi due secoli. In generale, il votante di sinistra della sinistra non sa niente. E per cominciare ignora del tutto l’economia. E allora, che cosa intende, per “essere di sinistra”? Ecco un problema che non si pone. Forse vi risponderebbe che “ogni persona perbene è di sinistra”.
Infatti, per la maggior parte dei cittadini essere di sinistra non ha nulla a che vedere con l’economia o con la politica: è semplicemente una posizione morale. Una risposta all’interrogativo: siete per la bontà o per la cattiveria? Per la solidarietà o per l’egoismo? Per la giustizia o per l’ingiustizia? In una parola: per il bene o per il male? Questa distinzione manichea spiega perché indistintamente tutti coloro che si sentono “di sinistra” si considerano moralmente superiori. Infatti tutti gli uomini di destra – cioè tutti quelli che non sono di sinistra – sono per la cattiveria, l’egoismo, l’ingiustizia e il male. Il discrimine, come si vede, non è logico o intellettuale, politologico o economico: è essenzialmente affettivo. E si nutre di conformismo.
Il mondo della scuola, pressoché unanimemente di sinistra, ne è un buon esempio. In esso si muove gente che vive di stipendio fisso e il cui lavoro non è mai sottoposto a controlli di rendimento. Dunque il genio della cultura e dell’insegnamento guadagna quanto l’ignorante scansafatiche. Quello che non insegna niente e promuove tutti. Ed ora chiediamoci: perché promuovere un somaro è “di sinistra” mentre bocciarlo è “di destra”?
Tutto dipende dal criterio di valutazione. Il professore di sinistra pensa che, se quell’alunno ha risposto male alle interrogazioni, è perché non gli hanno insegnato le cose nel modo giusto; perché non gli sono state offerte le condizioni giuste affinché studiasse; perché i professori non si sono interessati di lui in modo speciale, come meritava; infine (addirittura) perché è intellettualmente ipodotato e ci si deve chiedere: è forse responsabile di questa inferiorità? Dunque va promosso “per motivi morali”.
Per il docente di sinistra la bocciatura o la promozione non certificano l’acquisizione, o la mancata acquisizione, delle nozioni minime richieste ma il livello morale del discente. E questo ha completamente rovinato la scuola italiana. Che senso ha rilasciare il diploma di ragioniere ad uno che non saprebbe fare il ragioniere? E perché rilasciare un diploma di Scuola Media Inferiore a chi non è alfabetizzato? È come mettere il cartello: “Questa è una torta” su una forma di pane ammuffito.
L’uomo di sinistra non parte dalla realtà, ma dal sentimento. Se gli operai di una certa fabbrica guadagnano troppo poco, pensa che lo Stato dovrebbe imporre alla fabbrica di pagarli di più. Senza chiedersi se per caso la fabbrica non sia marginale tanto che, se aumenta i costi, chiude. Per lui è evidente: se il datore di lavoro non li paga di più, è perché è cattivo e si mette in tasca quello che non dà agli operai. Il che potrebbe perfino essere vero, ma bisognerebbe accertarlo, non presumerlo. Purtroppo la realtà concreta è troppo prosaica per occuparsene. Basta creare un “salario minimo” e tutti gli italiani saranno benestanti. E poi ci si meraviglia del lavoro nero.
Se proprio si tenta l’impresa titanica di spiegare un po’ di economia all’uomo di sinistra, si sbatte contro la panacea di tutti i mali: l’azione dello Stato. Se la fabbrica non può aumentare i salari intervenga lo Stato, ripianando il deficit, a spese dei contribuenti realmente produttivi. L’Italia ha sprecato quattordici miliardi di euro per non chiudere un’impresa economicamente fallita come l’Alitalia.
E così si arriva al nocciolo della questione. Dinanzi ad ogni dilemma l’uomo può scegliere la soluzione logica (ammesso che la conosca) o la soluzione sentimentale. La prima indica quella più utile per tutti, la seconda quella che fa sentire buoni, sensibili, caritatevoli (sempre a spese altrui, beninteso).
Se il dilemma è fra bene e male, chi può onestamente scegliere il male? Ecco come si spiega che tanta gente voti per l’ideale, per la soluzione miracolistica, per il paradiso in terra. Ed ecco perché, come ha detto Luca Ricolfi, gli uomini di sinistra sono “antipatici”. Il loro senso di superiorità morale è talmente forte che essi si credono infallibili, eternamente dal lato della ragione e in diritto di trattare tutti dall’alto e giudicarli. Severamente.
Il successo mondiale del comunismo si spiega col fatto che molti non hanno mai guardato alla situazione che si è realizzata nei Paesi dove esso ha governato (si pensi all’attuale Venezuela) ma ai suoi slogan, alle sue speranze, alle sue promesse. Come si potrebbe non essere per l’uguaglianza di tutti? per la prosperità di tutti? per la fine dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo? per l’eliminazione dei privilegi e delle rendite? per una società felice in cui gli ultimi sono aiutati e rispettati? Il fatto che questi ideali siano irrealizzabili, e che comunque il comunismo non li abbia mai realizzati, non ha avuto importanza. Ed è così che il comunismo ha dominato il mondo.
La voglia di credere a queste fandonie è stata tale che, ogni volta che la verità trapelava dalle dittature comuniste gli idealisti preferivano credere che quelle evidenze fossero calunnie. Il complotto dei cattivi si attivava per negare la felicità di chi aveva abbracciato la dottrina salvifica.
Il comunismo, nei Paesi che non lo hanno vissuto sulla loro pelle, non è stato annientato dall’evidenza del suo insuccesso, ma dalla dichiarazione di fallimento proclamata dalla più alta cattedra di quella dottrina: cioè da un congresso del Partito Comunista dell’Unione Sovietica. Gli allocchi occidentali hanno accettato di vedere quello che avevano sotto gli occhi soltanto quando glielo ha mostrato Khrushchev, il Papa stesso di quella falsa religione. Prima, per decenni, hanno avuto il coraggio di credere che sotto Stalin la gente vivesse bene.
Essere di sinistra significa avere buoni sentimenti e totale mancanza di senso del reale. Essere di sinistra significa credere che si combatta la povertà facendo la carità allo storpio dinanzi alla chiesa. Essere di sinistra significa fare la cosa che sembra giusta nel brevissimo termine, senza chiedersi se non sia rovinosa a medio e lungo termine. Essere di sinistra significa essere intellettualmente minorenni e vantarsene per giunta.
Ma gli uomini di sinistra in questo campo hanno una giustificazione storico-culturale, anche se non la conoscono. E dire che è il motivo per il quale, dopo il Settecento, i cervelli europei sembrano funzionare a singhiozzo.
Nella seconda metà del Settecento nacque in Francia una sorta di opposizione all’Illuminismo. Si era stanchi della fredda ragione e la moda divenne quella della “sensibilità”. Rousseau si propose come il leader e l’interprete di questa nuova tendenza, contrapponendo alla razionalità illuministica l’affettività pre-romantica. A suo parere, la bussola dell’uomo dabbene era e doveva essere il sentimento. L’uomo che ragiona, per lui, era corrotto e malvagio, mentre “l’uomo che sente” e segue il suo cuore, era “l’uomo di natura”, l’uomo giusto, l’uomo incorrotto. L’istinto è guida migliore della logica.
Questa dottrina funesta uccise in concreto l’Illuminismo. Separò la scienza dal sentire comune. Risuscitò la religione (annullandone la dottrina e riducendola a sentimento; si legga Chateaubriand). Insomma ammorbò a tal punto l’intelligenza che ancora oggi la razionalità non ha diritto di cittadinanza e perde se si scontra con “i buoni sentimenti”.
L’Illuminiamo ha rappresentato il punto più alto della razionalità umana, ma deve essersi trattato di uno sforzo insostenibile. Infatti da un lato la scienza e la tecnologia hanno fatto passi da gigante, dall’altro la mentalità dell’uomo medio, ridivenuta infantile, se ne è allontanata nella direzione contraria. Verso il passato e la mentalità del primitivo.
Gianni Pardo, giannipardo1@gmail.com
20 gennaio 2022

Gianni Pardo RACCONTI Vol. I

Gianni Pardo RACCONTI Vol. I

Questi racconti sono un’occasione di riflessione e, a volte, di sorrisi divertiti. Li hanno messi insieme mia moglie Alida (Anna Murabito) e Carlo Casagni, di loro iniziativa e faticando più di quanto io sarei mai stato disposto a faticare. Il minimo che posso fare è ringraziarli caldamente e far posto al libretto nel mio blog.

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