Anna Murabito CREPUSCOLI

tre poesie di Anna Murabito

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Musica di G. F. Händel: Largo (“Ombra mai fu”)

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Sempre ho amato
i crepuscoli
quando i minuti si fanno lunghi
come le ultime ombre
e diluiscono il buio ancora tenero.
Bruciano i graffi della mente
ed il pensiero dell’inafferrabile
si volge in nostalgia
di mondi sconosciuti.
Effluvi di già visto
percorrono i sensi
come fughe per organo
e tremano
con le prime luci accese.

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All’imbrunire
cammino lungo la terrazza
sospesa sulla collina.
Lontano
il mare grigio latte
si confonde col cielo.
Vorrei agganciare il porto
al mio balcone
e toccarlo con gli occhi,
dipingere per sempre
le sere terse del Sud
e imprimermi nei sensi
come un tatuaggio estremo
le sorprendenti fragranze
che ancora vestono la notte.
Vorrei staccare
le lampare dalle barche
per un giardino sull’acqua
in una festa
con musiche di Händel.
Catturo immagini
che durano un istante
nella luce incerta,
perline di vetro
di un rosario
che non si lascia sgranare.
Vorrei raccogliere il tempo
molle e sfuggente,
paracadute di seta
che al suolo
si ripiega con affanno,
rete da pesca vuota.
Mentre il buio
si ostina a rincorrere
il crepuscolo.

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Stingono i colori
s’immobilizza il tempo.
L’ora incerta
si rannicchia
nel silenzio rappreso
e il cielo
senza voli né echi
perde la strada.
Insensibile avanza la notte
con passo di velluto nero.
Il suo ampio cappello
sconfinato
copre l’ultima trasparenza
soffoca i conati di una luce
già sconfitta.
Galleggiano punte
di dolore antico.
La gioia è una foto
dal sorriso bugiardo.

Anna Murabito      annamurabito2@gmail.com

 Anna Murabito – Parole Naufraghe Vol. I (sfogliami.it) 

Anna Murabito – Parole Naufraghe Vol II – Sfogliami.it

Anna Murabito LEGGEREZZE

Ispirate a Chagall, tre poesie di Anna Murabito

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Sognando con Chagall

L’erba era alta
come un campo di mais,
profumata di pioggia.
Avanzavo
fendendo nastri di menta,
chiome di alghe marine.
Chagall mi sorrideva:
volavano per me
mucche e narcisi.
Gli sposi passeggiavano nel cielo
abbracciati alla Torre Eiffel
violinisti vagavano sui tetti
come passeri verdi.
Senza l’ingombro del pensiero
senza presenze oscure
bevevo effervescenze blu
mangiavo profumo di gardenia
mi vestivo di smalti
e trasparenze.
E sognavo colori ultraterreni.
Lontane
le parole intrise di sale.
La solitudine
aveva chiuso le ali nere
e languiva in disparte.
Il tempo girava
su una giostra gentile,
scendevano le stelle
fino a sfiorarmi, languide,
ed il sole era un fiore con il gambo.
Immersa in un piacere sconosciuto
nuotavo nel mio sogno
e non volevo uscirne:
volevo ancora vedere
le cupole a cipolla
sbocciare come rose
nell’azzurro;
salutare ancora gli sposi
con la mano.

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Vorrei un amore

Vorrei un amore
da quattrocento metri
con corsie definite
infrazioni, squalifiche,
ostacoli saltati
con disinvoltura.
Un amore che scivola
sulla peluria bionda
della pelle estiva;
su un’inflessione di voce
presto dimenticata;
sul fatuo pantografo
di uno sguardo da aperitivo.
Su volatili lacrime d’addio.
Un amore color pastello,
malva, lilla, viola chiaro,
da spalmare, leggero, sulla vita
dimenticando il peso
del rosso e del nero.
Un amore impressionista
come la musica di Debussy
che mi descrive un mare
senza sale.
Un amore alla Chagall
che mi faccia volare
indenne e colorata
col gallo blu e le stelle.

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Sorrisi

Ci sono sorrisi che si perdono.
Quelli labili,
bianchi
come bugie innocenti.
Quelli velocissimi
che lampeggiano
nell’attimo fuggente.
I sorrisi effervescenti delle feste
impigliati al riflesso
dei bicchieri
e poi scie di sorrisi
rivolti a qualcuno
che già si allontana:
code d’amore
inesitate.
Vagano sospesi
per un tempo incerto
prima di svanire
come un canto remoto.
Qualcuno,
forse solo al mondo,
li raccoglie con un retino fine
li intreccia
con l’oro e con la seta
li accende di notte
quando fa buio.

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Anna Murabito     annamurabito2@gmail.com 

Anna Murabito – Parole Naufraghe Vol. I (sfogliami.it)

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CHAGALL di Anna Murabito

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Musica di Max Bruch: “Kol Nidrei” Op 47

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Che il dolore sia l’inevitabile retroterra dell’arte è quasi un luogo comune. “Perché?”, mi disse un giorno un amico, “Non tutti i pittori sono Van Gogh, ci sono i pittori felici”. Non mi convinse del tutto, ma l’argomento era di quelli che si addicono all’amicizia. Gli chiesi un elenco, di questi pittori felici, e lui me lo fornì.

     Comunque, tra i pittori felici merita un posto Marc Chagall (1887 – 1985) o Moishe Segal o Mark Zacharovič Šagal, che anche da queste molteplici identità trae occasione di ricchezza e non di smarrimento. Né, tanto meno, di arzigogolate angosce esistenziali. Convivono senza conflitti in lui, questi diversi umori, così come l’asino convive con la luna nei suoi affollati cieli fantastici.

Russo, ebreo, francese. Ebreo per il villaggio in cui è nato e che gli è rimasto nel cuore; francese per adesione culturale ai fermenti del Ventesimo Secolo; russo, soprattutto russo, per la memoria delle favole, per il temperamento appassionato ed esuberante. Una sorta di Čaikovskij. Con un pathos limpido e mite però: un inesauribile creatore di “melodie” pittoriche, in cui a volte il colore esce dai margini dell’immagine rappresentata. E questopiù che per l’adesione a un movimento culturale (il “Tachisme”, da “tache”, macchia), per una sorta di sopraffazione che il colore opera nei margini stessi della sua anima e della sua visione del mondo.

Aderì alla Rivoluzione di Ottobre, ma da artista, senza realmente capirla, e non riuscì mai ad essere sovietico: nulla avevano a che fare gli innamorati verdi e le mucche blu con la causa del popolo, così come i dirigenti del partito la intendevano. La glorificazione di Marx ed Engels non era in linea con le sue visioni.

Conobbe i pogrom (uno il giorno stesso della sua nascita), le due guerre, il comunismo, il nazismo, l’esilio. Ma queste vicende, che sconvolsero la vita del mondo, lo lasciarono indenne: perché lui ci racconta prevalentemente l’amore e l’infanzia, la favola, il gioco, il circo. Il suo è un universo individuale, e i ricordi gli servono solo ad arricchire la “sua” storia; non sono e non vogliono essere, se non in piccola parte, un documento della storia degli uomini. Sono eventualmente un pretesto per raccontare il cuore degli uomini, così come può esserlo la poesia nostalgica di Fellini.

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Il villaggio è onnipresente. Nelle sue tele si respira un mondo semplice e privo di inquietudini. Le albe e i tramonti scandiscono il tempo; la stalla è attigua alla “camera da letto”; i ragazzi imparano a mungere le mucche e le chiamano per nome. Gli animali, gli immancabili animali – che l’artista riporta anche nelle magnifiche vetrate istoriate delle Cattedrali europee e della Sinagoga di Gerusalemme – potrebbero non avere sempre quel valore simbolico che alcuni critici vedono in essi, ma esprimere a volte solo una familiarità vestita d’ingenuità: gli occhi sgranati del bambino di fronte a un uccello sconosciuto; l’affetto per l’asino, una sorta di fratello più forte; l’aringa, un pesce grande, importante, perché collegato al mestiere del padre.

Siamo lontani dalla poesia intellettuale e squisita di La Fontaine, di cui pure illustrò le favole. Qui c’è lo spessore, a volte perfino grottesco, delle storie del mitico Giufà siciliano, dove il gallo può essere chiamato scherzosamente e familiarmente “il cantalanotte”. Il mondo descritto è quello delle scarpe grosse e del fieno, degli odori eterni della natura, dei fiori di campo, dei ragazzi che si appartano per fare l’amore e poi si sposano – lei nella povera eleganza del velo bianco –  con una cerimonia accompagnata dall’immancabile violinista. Questo è il contadino ebreo russo che descrive il suo mondo, mentre è soltanto ebreo il pittore che ci mostra il violinista sul tetto, simbolo delle difficoltà che il popolo ebraico è chiamato ad affrontare, abituato com’è a dare il meglio di sé anche in condizioni estreme.

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Tutti galleggiano nei quadri di Chagall. Ed è un volare irrealistico e sproporzionato. Distanze, prospettiva, dimensioni vengono inventati ex novo, in linea con l’estro visionario dell’artista. Lo spessore degli ambienti, degli animali, dei personaggi, si scioglie in un mondo turbinante e ripetitivo, un’assenza di gravità originata da una fantasia più che visionaria: fantasmagorica. Non è l’inconscio devastante di Bosch, che emerge, né quello delle sedute psicoanalitiche. Le immagini di Chagall non affiorano a tradimento e dolorosamente né sfuggono per caso, come il lapsus di Freud; non esprimono verità seppellite sotto la vita, ma al contrario una vita con verità esplicite e degne di essere mostrate. Il pittore ce le ripropone mille volte con i colori smaglianti e irriducibili di un’evidenza che si impone a tutti, con la disinvoltura quasi infantile di chi non teme smentite, talmente ascolta soltanto la propria fantasia che sovrappone alla realtà fino ad annientarla. Perché quella fantasia è l’unica strada che sa percorrere; è la sua visione del mondo. Soavemente surreale.

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E, accanto al villaggio, l’amore. La coppia, gli innamorati, gli amanti, gli sposi soprattutto, declinati in tutte le pose, di giorno e di notte. Belli o brutti, verdi e viola, quasi sempre vestiti. Non c’è sensualità, c’è il sentimento atavico di un rapporto vitale che riguarda tutti o almeno i fortunati che lo hanno vissuto: l’amore è nel mondo, come la terra, come la luna, come il sole, trasformato a volte in una sorta di astro familiare, di fiore pazzo, rosso come un tuorlo, neanche tanto rotondo. Il sole è con gli innamorati, in un mondo che comprende tutti gli esseri del creato. Chagall conosce l’amore. Per questo riesce a raffigurare la passione e l’abbandono, la tenerezza e la fiducia negli abbracci e negli sguardi; negli occhi che si chiudono; nelle mani che accarezzano e proteggono. Non sono gli innamorati a galleggiare, galleggia l’amore.

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Non è solo “visione”, tutto questo. C’è anche una sorta di panteismo elementare e benevolo risalente alla religiosità popolare della Cabbalah. C’è il misticismo tipico dell’anima russa. E inoltre un richiamo, forse un po’ sfocato, allo “spirito”, al lato invisibile delle cose, da cui l’artista si sentiva attratto. La sua tendenza alla spiritualità muta la rappresentazione del mondo concreto in un universo pittorico unico: e vive sulle tele una “realtà” senza peso intrisa, oltre che di sogno, di mistero religioso. Apollinaire definì “soprannaturale” la pittura di Chagall.

Perché volare. Credo lo stesso artista abbia detto che l’amore rende capaci di volare e che lui ha dipinto i suoi personaggi “in cielo” perché erano come inquilini senza casa sulla terra. Belle spiegazioni razionali che danno un senso ad una rappresentazione. Ma l’arte è solo rappresentazione?

Si potrebbe dire altrettanto legittimamente che i personaggi galleggiano come nell’immaginario popolare “volano” le anime e gli angeli. O anche, ritornando allo stesso Chagall, che “La pittura è uno stato d’animo”. Ma forse non serve che i pittori parlino d’arte. E paradossalmente neanche gli storici dell’arte dovrebbero tentare di spiegarla. Perché l’arte non risponde ai “perché”.

E allora cos’è l’arte di Chagall? È una magia. Forse uno stato di grazia che concede a pochi privilegiati il mestiere di Dio. E Dio doveva intendersene di colori, a giudicare dai dipinti di questo artista. Più che le sue figure e i suoi temi un po’ ripetitivi, sono i colori che non smettono di galleggiare davanti ai nostri occhi: un caleidoscopio senza fine. Un’ossessione positiva, una sorpresa gioiosa, che lascia una traccia squillante, come può venire da un pittore felice.

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Ma non sempre felice: Chagall conobbe la depressione. Dopo la morte di Bella Rosenfeld, sua moglie, ispiratrice e compagna di vita per moltissimi anni, si spegne nella mente dell’artista la voglia di distribuire immagini di cielo notturno, di immensi uccelli blu e di angeli acrobati. La realtà, quella vera e inconciliabile col sogno, lo spezza e lo ammutolisce. Poi, dopo un anno, il suo temperamento appassionato avrà la meglio. E di nuovo riprenderà la sua narrazione: la favola, l’infanzia, l’amore. Su tutto una sorta di divinità pervasiva, priva di rigore e di vendetta. Una realtà consolante e surreale.

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Tra le sue opere mi piace ricordare certe immagini, come quella famosissima, (“La passeggiata”), in cui l’innamorato porta a spasso per i cieli di Parigi la sua ragazza, come un aquilone, come un palloncino leggero, come una bandiera viola. Un ideale che sogna un ideale.

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Anna Murabito      annamurabito2@gmail.com

La mano invisibile – di Gianni Pardo

Lo statalismo è la tendenza ad affidare allo Stato la massima quantità di compiti per dirigere e regolare l’attività sociale, fino al panstatalismo sovietico delle origini. Questa tendenza nasce dall’idea che lo Stato, essendo impersonale, è sempre onesto e disinteressato. Naturalmente chi pensa questo dimentica che, come si dice, le istituzioni camminano sulle gambe degli uomini. Poi si pensa che lo Stato si occupi dei più deboli e dei più poveri, il che è vero, ma dimenticando che, quando dà uno ad alcuni, prende due ad altri. Così diviene un parassita e un fabbricante di miseria. Ma non c’è niente da fare. La leggenda delle virtù dello Stato è immortale (Hegel lo ha quasi deificato) perché è appassionatamente coltivata da coloro che sperano di trarne profitto. Gli invidiosi, per cominciare. E poi gli incapaci e i molti che pensano di non avere nulla da perdere. E si sbagliano. Perché probabilmente hanno una libertà di cui non sempre i cittadini hanno fruito. Come non ne fruivano certo i russi negli Anni Trenta. Anzi, dal 1917 al 1990 e oltre.

Ma fra gli aspetti più curiosi di questa leggenda della positività dello Stato ve n’è uno veramente sorprendente e diffuso: si reputa che, in materia di economia, lo Stato ne capisca più dei privati; e proprio per questo debba sempre dirigerla e correggerla. Ad esempio, se una categoria di imprese si trova in difficoltà (per esempio gli allevatori di cavalli quando si è diffusa l’automobile) per gli statalisti è normale che, a spese degli altri contribuenti, lo Stato gli offra un sostegno finanziario, o tassi di più l’automobile, per lasciare uno spazio alle carrozze.
Si noti che, dal punto di vista degli statalisti, questi provvedimenti sono “giusti e umani”. Non c’è ragione che gli allevatori, i fabbricanti di carrozze, i coltivatori di foraggio e via dicendo si trovino improvvisamente a perdere la loro attività. “Vanno aiutati”, “Sono dei padri di famiglia”. Ciò di cui non si accorgono, gli statalisti, è che se un prodotto è condannato dal mercato, non c’è Santo in cielo che possa salvarlo. Dunque tutti quei provvedimenti “umani e giusti” non fanno che ritardare, a spese dei contribuenti, un fatto inevitabile. Distruggendo ricchezza.
Lo stesso vale se, nella produzione di una merce, uno Stato estero riesce ad operare più economicamente di noi. Se noi, per permettere di sopravvivere alle imprese che non reggono la concorrenza, mettiamo un dazio sulla merce straniera, costringiamo i nostri cittadini a pagare cento ciò che potrebbero avere a settanta. E a non spendere trenta in altri prodotti. Insomma, pressoché ogni volta che lo Stato mette le mani nell’economia, la sua azione si traduce in una distruzione di ricchezza.
L’errore di questa teoria è credere che, se non intervenisse lo Stato, le cose andrebbero male. E questo è un errore. Il padre dell’economia classica, Adam Smith, ha infatti capito che il mercato si aggiusta da sé. I fabbricanti di carrozze costruiranno automobili. Gli allevatori di cavalli alleveranno bestiame da macello. E via dicendo. Quello che nelle società stataliste si fa con ritardo, e dopo avere inutilmente resistito, nello Stato liberale si fa subito e a costi minori. L’Alitalia finirà al macero, ma dal momento che il nostro Paese è statalista, finirà al macero dopo che ai contribuenti sarà costata circa quattordici miliardi di euro. Applausi.
Smith ha sostenuto che nella società c’è una “mano invisibile” che corregge gli errori di mercato. Faccio un esempio teorico. A causa di una congiuntura negativa, imperversa la disoccupazione e i lavoratori, pur di non morire di fame, offrono le loro prestazioni a un prezzo bassissimo. Per dire, lavorano una giornata per venti euro. Ovviamente sono sfruttati, la situazione è immorale, tutto ciò che si vuole. Ma per il momento non ne teniamo conto.
Se il costo del lavoro è pressoché irrisorio, imprese che avevano dovuto chiudere, o che non aprivano, rientrano in gioco. Presto ci saranno meno disoccupati e, per assumerli, bisognerà pagarli meglio, strapparli a coloro che li avevano assunti prima. Così arriva il momento in cui si torna all’equilibrio.
Se la macchina automatica è lasciata libera di operare, i lavoratori sono pagati il giusto. E quando dico “il giusto” non intendo, come dice assurdamente la Costituzione Italiana, il necessario “per sostenere la propria famiglia”, ma una somma quale risulta dal libero gioco della domanda e dell’offerta. Se un calciatore è pagato milioni e un professore di filosofia è pagato una miseria, è perché la gente si diverte di più col calcio che con la filosofia.
Questa teoria della “mano invisibile” è vista come il fumo negli occhi da tutti gli uomini di sinistra. Infatti essa non rende popolari agli occhi degli elettori, e soprattutto toglie potere ai politici. Se l’economia si regola da sé, che cosa regola il ministro dell’economia? E come può favorire gli amici (anche per categorie) e sfavorire i nemici (anche per categorie)?
Si può tuttavia dare una dimostrazione “obliquamente” economica della “mano invisibile” . Ponetevi questa domanda: “Chi distribuisce la popolazione nel territorio?” In uno Stato di diritto la risposta non può essere che: “Nessuno”. Ognuno va a vivere dove gli pare. Dove trova un lavoro, dove le case costano meno, dove abita uno zio, dove il clima è gradevole, semplicemente nel posto dove è nato. Ché se poi, dove vive, qualcuno si trova male, si trasferisce. In Italia, negli Anni Cinquanta, c’era lavoro al Nord e non c’era lavoro al Sud, sicché non so quanti calabresi e siciliani sono andati a vivere in Piemonte, e ormai i loro nipoti sono piemontesi doc.
Ora immaginiamo che ci sia un Ufficio Collocazione della Popolazione nel Territorio. Un ufficio cui fare domanda per trasferirsi da una casa all’altra, da una città all’altra: si riesce ad immaginare la quantità di guai che riuscirebbe a combinare un simile ufficio, sia pure nella più perfetta buona fede? La mano invisibile invece opera liberamente ed efficacemente, e nessuno ha da lamentarsi.
Ebbene, è lo stesso in economia. Il miglior giudice di ciò che conviene all’individuo è l’individuo stesso. Una società libera penalizza gli inferiori, ma produce tanta ricchezza da provvedere anche a loro: si pensi alla Svizzera. Mentre una società collettivista, come la Russia sovietica o la Cina maoista, conosce non solo l’appetito, ma la morte per fame.
Gianni Pardo 

PIERNEEF di Anna Murabito

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Musica di R. Vaughan Williams: “Fantasia su un tema di Thomas Tallis”

Jakobus Hendrik Pierneef è un pittore, nato e morto a Pretoria (1886 – 1957). Poco conosciuto in Italia, le sue opere sono esposte nei grandi musei sudafricani e le sue quotazioni sono molto alte.

È definito un paesaggista, e di solito questo corrisponde ad una natura bucolica. Invece io percepisco nei suoi dipinti un sentire violento e insieme raffinato e poetico.

Il paesaggio non è la sua scelta pittorica, è il suo inseparabile compagno. Una ineludibile ossessione che si ripropone in una sfilata di sogni ad occhi aperti. Talvolta Jacobus riesce a domarlo, ritagliandolo con le forbici della stilizzazione, talvolta ne è sopraffatto, investito dalla tempesta dei colori e delle forme. Ed ecco allora le sue montagne di cartapesta. Rosse e quasi sensuali, ma anche viola, rosa, gialle, arancione, vestite con i colori del gioco e della favola. Forse l’Africa è troppo “grande” per un solo pittore e produce evasioni della mente, esaltanti fughe nell’immaginario.

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Ecco perché, per Pierneef, la definizione di paesaggista è riduttiva: Jacobus è un figurativo onirico. I suoi dipinti non sono tanto rappresentazioni quanto trasfigurazioni.

Il suo sogno ha due dimensioni: la terra e il cielo.

La terra è dominata dal silenzio, dalla luce, dagli alberi. Elementi che sembrano entrare uno nell’altro, in un insieme indivisibile: alberi dai margini netti o spumosi, verde chiaro, vinaccia o arancione, piantati in una realtà estatica e rarefatta. Hanno l’eleganza formale delle stampe giapponesi; rappresentano un godimento intellettuale prima che estetico; sono belli come un sogno perfetto. Proiettano un’ombra inutile, dal momento che non c’è nessuno e si appagano di sé: guardiani di una luce improbabile, a volte viola chiaro, che inquieta e incanta.

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Oppure scheletri ormai esausti, di cui si avverte quasi l’assenza di linfa e il crepitio dei rami spezzati. Scuri e visibili anche da lontano, come grandi totem.

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A volte colori mai visti sono accolti in uno schema paesaggistico assolutamente classico; più spesso la stilizzazione semplifica le forme ed esalta il silenzio. Non solo l’essere umano è assente, ma non si sentono neanche uccelli cantare o serpenti strisciare. Non c’è quella presenza oscura e frenetica che un poeta ha avvertito nel meriggio estivo ligure: “Ascoltare tra i pruni e gli sterpi, schiocchi di merli, frusci di serpi”. La vita fissata sulla tela è ferma come una conchiglia fossile, un dipinto di Lascaux. Essenziale come l’amore quando si esprime in un gesto.

La metà dell’universo figurativo di Pierneef – la terra – mostra sempre una realtà riconoscibile, ancorché legata alla favola e al colore. Il sogno delle nuvole occupa invece un’altra dimensione, più vicina all’astrazione, confinante con un incontenibile inconscio. Le nuvole sono pura creazione, immaginario poetico divenuto visione. Raramente sono dense e carnose, cariche di pioggia, come quelle che si vedono lungo le coste dell’Oceano in un suo “Lone tree”.

Lone tree

Raramente sono sfilacciate, morbide, tenui, semplicemente nuvole. Sono un mondo da percorrere con le ali. Sono l’itinerario di una visione multiforme e priva di censure: paracadute, ombrelli bianchi, gonne ampie di fanciulla. Sono ghiacciai sospesi nel colore viola pallido. Iceberg e cascate galleggianti nel blu. Monumentali riccioli di burro, gialli e grassi, così pesanti da far temere che cadano da un momento all’altro. Altre masse e ghirigori, non facilmente identificabili. Quando non vuole dare forma alle sue nuvole-sogno, il pittore porta in cielo un pezzo di terra, e il cielo diventa specchio del campo con le tinte tenui delle diverse colture.

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A volte tutto si mescola. Ombre lunghe, luce sovrana, radente, che esalta il bianco, ma è spettrale nel cielo violaceo. Forse pioverà. Certo le nuvole sono monumenti di Titani (“Landscape”).

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Altrove alberi come pilastri di un cancello immaginario. Cortine grigie in successione. In lontananza il solito cielo “affollato”: Il trono di un dio invincibile? Lastre di marmo di una città distrutta? (“Strange weather”).

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Pierneef non è un naif. I colori insoliti e l’eleganza del tratto sono filtrati da una consapevolezza squisitamente intellettuale. I suoi dipinti stordiscono e ipnotizzano, anche per la ripetizione degli stilemi che comunque non diventano mai modulo inerte ma vita che si rinnova ad ogni visione. Di presa immediata, non hanno bisogno di interpretazione o meditazione: colpiscono come un’onda sonora. L’ossessione paesaggistica di Pierneef diviene anche l’ossessione dello spettatore quasi violentato eppure mai appagato: in cerca del quadro successivo, di altre tinte mai viste, di altre nuvole inventate.

La realtà finita e l’infinito immaginario si toccano e si confondono, lasciandoci vagamente sgomenti.

I dipinti di Pierneef sono attaccati alla sua anima. Sono spesso una favola divorata dalla grandezza di un cielo imprevedibile.

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Anna Murabito     annamurabito2@gmail.com

MANET E MONET di Anna Murabito

 

Note su due grandi pittori

di Anna Murabito

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Musica di César Franck: dalla “Sonata per violino e pianoforte”

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Musica di Johannes Brahms: dal “Quintetto per archi op.115”

Li abbiamo sempre confusi, o almeno distinti grossolanamente. Édouard Manet (1832 – 1883) l’autore de “La Colazione sull’erba”, opera ritenuta enigmatica quasi quanto “La Tempesta” di Giorgione; e Claude Monet (1840 – 1926), “quello delle ninfee”.

Li abbiamo messi insieme a torto in quel calderone fremente di vita che fu l’Impressionismo, chiedendoci: Manet o Monet? La colpa, ovviamente, è loro. Ne mancavano, cognomi? Tra l’altro, per ispessire la nebbia, anche Monet è autore di una “Colazione sull’erba”. 

A volte procediamo per semplificazioni elementari: Degas è “quello delle ballerine” e dimentichiamo che è anche quello de “L’Absinthe”, che è certo l’assenzio, ma anche la mancanza di speranza nello sguardo di una donna. E le colorate farfalle danzanti sono solo una parte della sua ossessione pittorica che conosce l’eros greve delle case di tolleranza. Almeno però non lo confondiamo con nessun altro. Per Manet e Monet, dunque, qualche precisazione è necessaria.

Volendo fare un paragone tra i due artisti, si potrebbe dire di Manet, con Anna Achmatova: “Ci sono giorni che precedono la primavera”. E di Monet: “Primavera d’intorno brilla nell’aria e per li campi esulta”. Uno precede l’altro e fa da battistrada.

Quando gli schemi sono vecchi e usurati, si può creare il clima giusto perché la forza di un genio li abbatta. Manet sentì prima degli altri l’urgenza di percorrere strade diverse. Con lui la pittura abbandona gli studi polverosi e i soggetti ampollosi e stantii ed entra nella vita reale, spesso “en plein air”, all’aperto. Le divinità del mito e i personaggi storici cedono il passo alla quotidianità, alla gente comune.

La sua fu una grande rivoluzione: quella che aprì la strada all’Impressionismo, anche se egli non si propose mai coscientemente questo scopo. Non volle mai essere un ribelle, ed anzi si ostinò, con lunga pazienza, a cercare l’approvazione degli ambienti accademici. Fu travolto dalle critiche. Assaggiò delusioni cocenti ed anche umilianti irrisioni. Forse fu innovatore al di là di quel che avrebbe voluto. Forse voleva solo riformare la pittura classica. Se fosse riuscito ad essere un po’ più conformista, e ciò gli avesse permesso di essere accettato dai critici suoi contemporanei, forse si sarebbe per questo “falsificato”. Per nostra fortuna il suo genio era indomabile. E la sua importanza nell’ambito della Storia dell’Arte è enorme come enorme è il fascino immortale delle sue opere.

La ragazza di “Un bar aux Folies Bergère” è stampata nella nostra memoria insieme al nome del suo autore. È lì, per sempre, in primo piano, mentre dà le spalle a un pubblico anonimo che assiste allo spettacolo. Così naturalmente giovane ed ingenuamente procace, il viso serio e l’espressione quasi timida. La vita sottile, di cui si indovina il tepore, pare aspettare il braccio di un uomo al ballo. Non è una nobildonna, non è una persona importante. È una creatura viva in mezzo alle bottiglie vive e colorate. Il prototipo della brava e bella ragazza del bar, quella dall’anima candida, che spesso accompagna e consola l’eroe stanco al bancone.

A Bar at the Folies-Bergère

Nelle scene ambientate ad Argenteuil incanta l’indicibile leggerezza e naturalezza dei gesti e dell’abbigliamento. Un uomo dalla mise bianco-abbagliante in barca, un altro con una maglietta a righe con le maniche rivoltate a mostrare braccia abbronzate.

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C’è un dipinto in cui una coppia siede a un tavolo di un locale pubblico, sotto un albero di arancio. Lui è un giovane bello e disinvolto, elegante nella sua camicia gialla con la sua piccola cravatta Lavallière da pittore, secondo la moda del tempo. Lo sguardo tenero implorante e sfrontato, la bocca sensuale, sta corteggiando la sua “dame”. Si allunga verso di lei e quasi la circonda con le braccia. Sono troppo vicini per non parlare d’amore. Tutta l’attenzione del pittore è concentrata sul volto dell’uomo, uno scugnizzo napoletano terribilmente moderno. Le sta sussurrando l’eterno invito: “Vieni a letto con me e ti farò felice. Con me vedrai le stelle nel cielo azzurro del meriggio estivo”. Lei è un po’ rigida ed incerta: “Il cameriere ci sta guardando”, sembra dire. “Lascialo guardare”, continua lui.

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Le signore sono piuttosto statiche ed impettite in queste scene marine ed estive. Sembrano un passo indietro, rispetto agli uomini. Ma la vita che scorre non racconta più pose e allegorie, è quella di sempre, anche quella di oggi. Il “clima” è caldo e popolare, sembra di vedere nei personaggi maschili una sorta di Massimo Ranieri più raffinato, ma sempre con le sue “rose rosse per te”.

Non ricordo prima di Manet un pittore così moderno e così limpidamente esplicito. Lontanissima l’enfasi di Hayez, che si lancia a rappresentare l’amore romantico come poteva immaginarlo una sartina. O il tentativo di Klimt di portare su tela il lusso e la raffinatezza di cui anche la donna, con i suoi sensuali sfinimenti, è un esempio.

La luce “en plein air” bastava raccoglierla, e Monet ancor più di Manet, la rese protagonista.

In entrambi la luce non sottolinea più le espressioni e non scolpisce i volumi, come in Caravaggio; non esalta il pulviscolo fluttuante in un raggio di sole come nei miti interni dei fiamminghi. Ma in Manet questa luce appare  ancora statica, come se venisse da una sorgente fissa e diretta, esterna, ad accompagnare la vita; in Monet invece si muove e sembra avere un’esistenza propria. Una sorta di valore in sé: macchia chiara sulla gonna o sull’erba, degna di essere rappresentata. Non strumento, ma risultato.

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I volti perdono interesse. Sono appena abbozzati. Chiazze di colore in mezzo alle altre. I quadri crescono a pennellate veloci, senza disegno preparatorio. Mentre lo scandalo dei critici si levava alto, il paesaggio sostituiva l’uomo come soggetto cangiante, all’infinito.

Nessun ritratto in Monet. Quando rappresenta la figura umana, la natura e la luce invadono l’abito bianco e il parasole verde che fa tutt’uno col cielo azzurro. La realtà si trasfigura in un fulgore che trema e ricorda veramente la primavera leopardiana.

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Nessun sentimento da comunicare: soltanto il respiro fremente dell’aria; la seta di cieli tenerissimi e indistinti; l’allucinazione velata di rosso di Cattedrali gotiche, di cui non si saprebbe dire se sono sogno o realtà. Un lento viaggio verso qualcosa che non si era mai visto, la fine della pittura figurativa: nell’acqua del mare e del lago, nelle nuances indistinte delle foglie degli alberi. La realtà pittorica si semplifica, liberata dagli schemi, dai simboli, dagli intenti didattici ma si dilata e arricchisce attraverso i mille occhi che la percepiscono, nella infinita libertà delle sensazioni che procura, così come infiniti sono i colori. E anche la pietra smette di essere pietra. Rouen non è più una cattedrale di granito innalzata per la gloria di Dio, ma diventa occasione di emozioni in tutte le ore del giorno e in tutte le stagioni. Il colore diventa essenza, la luce l’unica realtà astratta che valga la pena di rappresentare.

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Catturare la luce, catturare il colore: cogliere quello che l’occhio percepisce e mescolarlo con il battito meravigliato del cuore, in una visione radiosa della vita: con Monet esplode l’Impressionismo e con esso la libertà e la leggerezza di un’arte pittorica che legittima l’emozione come immediata risposta. Come disse Gauguin: prima l’emozione poi la comprensione.

Con Manet e con gli Impressionisti (in prima fila Monet) ci avviciniamo alla pittura in sé, che è figlia del piacere di vedere. All’impressione, all’emozione della realtà e dei suoi colori, piuttosto che alla cronaca della visione. Non c’è posto per Arti e Mestieri, Vizi Capitali, Estasi di santi e Crocifissioni. Non c’è posto per omaggi ai potenti né per stereotipate rappresentazioni di umili pastorelli. La donna smette di essere Madonna o Nobildonna e diventa ragazza che legge un libro sotto un albero nel tripudio della primavera, giovane madre che passeggia per i campi in un giorno d’estate e le sue gonne bianche si portano dietro erba secca. Passando da un quadro all’altro, da un pittore all’altro, si è incantati da cento visioni, senza che sia importante il soggetto rappresentato, quanto la gioia di ciò che vediamo.

Questi grandi pittori non ci insegnano nulla, perché quello che ci comunicano non è materia di apprendimento. Manet ci lascia il sole che si accende sugli abiti di un giovane, durante una gita in barca; il desiderio d’amore negli occhi di un uomo. Monet ci lascia il rosso dei papaveri, il profumo del vento, il silenzio che cambia colore intorno alla cattedrale. Cose che non si apprendono, si sentono. Ed assumono valore universale perché arrivano al cuore di tutti, come le parole semplici delle Tragedie greche, come la musica di Mozart. Ecco perché le riproduzioni delle opere più note degli Impressionisti si trovano anche nelle case degli umili. La pittura non contribuisce alla “cause du peuple” di Sartre negli anni devianti del “realismo socialista”, ma alla causa dell’umanità.

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Le anime dei defunti nel mondo classico avevano un dolore cocente, quello di essere privati della luce. Guardando i quadri degli Impressionisti cresce in noi il rimpianto della vita mentre la viviamo.

Anna Murabito      annamurabito2@gmail.com

HIERONYMUS BOSCH di Anna Murabito

BOSCH

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Musica di Igor Stravinsky: da “L’uccello di fuoco”

Le immagini del video sono tratte dal “Trittico del Giardino delle Delizie” e dal “Trittico del Giudizio Universale”

1 Bosch Giardino

5 Parte centrale

11 Fiore bolla

17 Autoritratto

Hieronymus Bosch è un mistero. Di lui si ignora quasi tutto, a partire dalla data di nascita. Nessun episodio saliente, nessuna frase famosa, cosa che in un periodo di continua condivisione, qual è il nostro, ce lo rende lontano. Ma si tratta di una prospettiva dettata dagli schemi odierni. In realtà Bosch parla diffusamente, anzi grida un messaggio di fuoco, di dolore e di umori. “Umano, troppo umano”, avrebbe detto Nietzsche.

Questo gran parlare, tuttavia, non rende trasparente il suo linguaggio. La sua opera non è facilmente accessibile e non si presta ad interpretazioni univoche.

Lo spettatore che si trova per la prima volta davanti a un dipinto di Hieronymus Bosch prova innanzi tutto l’angoscia di sentirsi assegnare un compito tremendo: una serie di vignette gremite con molti episodi da districare, interpretare, decrittare. Più che un’emozione, la promessa di un lavoro pesante. Poi è sconcertato dalle atmosfere ambigue. Ambienti onirici, contrassegnati dall’eccesso mostruoso, con una totale assenza di censura: le immagini sono scandalose e trasgressive.

È improbabile attribuire alle opere di Bosch una committenza religiosa, anche se i temi della sua narrazione pittorica attingono alla Bibbia: la Creazione dell’Uomo, la Cacciata dal Paradiso Terrestre, il Peccato e la Punizione. Bosch coltiva questi argomenti, li approfondisce e li ripropone, li fa interamente suoi, fino a prescindere dal loro significato originale. Essi divengono il suo personale racconto, esattamente come altri uomini parlerebbero dell’amata, del primo figlio, dell’eterno alternarsi delle stagioni.

La Creazione dell’uomo e della donna sono i pochi momenti sereni, ma si sente che non appartengono alla vena più autentica dell’artista. Sono solo  l’inevitabile premessa della narrazione centrale: l’Errore, il Peccato, e la serie multiforme di tormenti da infliggere per aver peccato. La Punizione: eterna, implacabile, ossessiva. Si spalancano per l’uomo le porte dell’inferno e l’incubo, il terrore e persino una grottesca irrisione dominano la scena. È lì che Bosch ci vuole portare. Le immagini non sono catarsi, ma rigurgito sempre vivo di un malessere senza fine.

Il Sesso è un tema fondamentale dell’opera di Bosch. È il suo rovello. Un sesso filtrato attraverso fantasticherie morbose; forse, attraverso tendenze sadomasochiste e sodomitiche; sempre, attraverso i sensi di colpa derivanti dai codici insormontabili della religione cristiana.

Qualcuno vede nel “Giardino delle delizie” il paradiso perduto. È difficile aderire a questa tesi. I giovani che cavalcano ogni tipo di animale in una corsa sfrenata non sembrano felici. Il sesso li seduce con le sue lusinghe ed essi vi si abbandonano, ma hanno coscienza del peccato. Allo spettatore appartenente ad un’altra zona d’Europa – quella del Mediterraneo – fanno venire in mente altre leggende e rappresentazioni, quelle dei Proci che gozzovigliano nella casa di Ulisse. Ma  sappiamo come andrà a finire.

Anche quei giovani lussuriosi finiranno come i Proci, anzi molto peggio: bolliti in pentola, scorticati, infilzati, seviziati, costretti alle azioni più degradanti, tormentati da mostri e bestie immonde. Con particolare attenzione alle natiche, indagate e violate con ogni tipo di attrezzo. Mentre cavalcano, quei giovani  presagiscono la loro sorte, per questo non sembrano felici.

Nell’Odissea il ritorno di Ulisse rappresenta il prototipo dell’intervento dell’“eroe”, in vista di un giusto equilibrio delle vicende umane. L’inferno di Bosch, invece, sgomenta e disgusta, inquieta e non risolve.

Il peccato più imperdonabile dell’uomo è la lussuria. Non che gli altri vizi non siano puniti, anzi un’opera del maestro è dedicata ai Sette Vizi Capitali. Ma il sesso è il male dei mali. Quello che porta a desiderare una donna rappresentata come Eva nel pannello di sinistra del Trittico delle Delizie. Ha gli occhi bassi, è vero, e mantiene un atteggiamento pudico, ma la linea dei fianchi è sensuale ed invitante per qualunque uomo sano.

Ci si chiede a che pro quella profusione di bellezza se non se ne può godere. Un Dio crudele avrebbe condannato uomini e donne ad un eterno supplizio di Tantalo, per poi punire la trasgressione con un inferno infamante, dove è vietata perfino la pietà per il dolore. Un inferno che si risolve in crudeltà cieca e insanabile. Che non lascia spazio al pianto, al sentimento, alla poesia. Lontanissimo da quello di Dante.

Bosch sembra raccontarci lo strazio di un inferno cristiano, mitologico e popolare, governato dallo strapotere del diavolo. Ma accanto a questo inferno ce n’è un altro, “esagerato”, prodotto dalla sua mente dove la fantasia esplosiva e lucida si confonde con quell’inconscio di cui parlano gli psicoanalisti.

Questo miscuglio genera infinite chimere, come fuoriuscite da una produzione in serie di pezzi sempre difformi. La realtà non è vista nella sua regolarità ma si frantuma e si aggrega in una libertà di composizione che con quattro secoli di anticipo ha fatto parlare di surrealismo.

Non si tratta della deformità simbolica, come quella riscontrabile nei volti dei popolani che accompagnano Cristo nella sua Via Crucis. Lì è evidente l’intento di rappresentare la bassezza d’animo, l’insensibilità, il ghigno grossolano. Nel mondo di Bosch si tratta invece di una deformità pervasiva e sconvolgente, che dilata e complica la realtà visiva, che rende ridondanti e “mostruosi” i fiori e le foglie, i frutti, gli insetti, gli uccelli e le rocce. Una realtà gelatinosa e grondante umori, un film horror. E non sappiamo perché. Forse è proprio l’inferno che esce dai suoi legittimi confini e invade il mondo. Forse non c’è altra realtà. I colori violenti e il ritmo concitato fanno il resto: si ha voglia di dire basta e si continua a guardare, affascinati e scontenti.

Le creazioni visive di Bosch sono meraviglia ed incubo: la linea di confine non è netta. Forse sono proiezioni del suo inconscio, forse farneticazioni della sua mente. Forse soltanto un grido di dolore.      

Anna Murabito     annamurabito2@gmail.com18 Trittico del giudizio intero

30 Particolare pan, centrale inf.

33 Giu particolare 3