MAURICE UTRILLO di Anna Murabito

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Musica di Gustav Mahler: “Poco Adagio” dalla Sinfonia n.4

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Musica di Eric Satie: “Gnossiennes n.1”

IMMAGINI DI MAURICE UTRILLO

Utrillo Tour Eifffel

Parlando di Maurice Utrillo (1883 – 1955) non si può non pensare all’altro grande “insano” della pittura, così noto che molti lo chiamano solo Vincent, indossano le magliette con il suo nome, conoscono episodi drammatici della sua vita.

Però Van Gogh ci porta a forza nel ferro e nel fuoco della sua mente; Utrillo invece dipinge “per intervalla insaniae”, e i suoi quadri sono parentesi, stazioni, bolle di tregua e di silenzio nel suo stridente divenire.

Alcolizzato fin dall’infanzia, figlio di un’alcolizzata, epilettico, bipolare, paranoico, conobbe ancora ragazzo i manicomi. Pare che la nonna lo avesse reso avvezzo all’alcol fin da bambino. Successivamente la madre, Suzanne Valadon, modella e pittrice di successo, gli insegnò a dipingere nel tentativo di fornirgli un’alternativa al vino. Di fatto la pittura divenne la sua unica alternativa, la sua intermittente terapia, la sua droga benefica. E l’espressione di una poesia intima, in cui il dolore si intravede appena, senza essere mai gridato.

Quanto a gridare, Maurice faceva anche di più: quando non dipingeva e non beveva, nei suoi accessi di furia scaraventava in strada ogni oggetto che trovava. Nella sua stanza la finestra conserva una rete metallica a maglie strette, per salvaguardare gli accidentali passanti, e solide sbarre per impedire che Maurice scaraventasse giù anche sé stesso.

Parigi è la sua casa, il rifugio della sua anima in pena. Vi si muove con sicurezza ripercorrendo sempre gli stessi luoghi, come chi ritrovi i ricordi vagheggiati di un’infanzia felice: Montmartre, il Moulin de la Galette, la casa di Mimi Pinson. Il suo respiro si placa nelle strade deserte, nelle piazze quiete, nella consonanza con gli alberi scheletrici o stilizzati. Le facciate delle case sono statiche, fondali di scena di uno spettacolo che non ci sarà.

Mai quadretti, mai idillio, mai kitsch. I suoi dipinti non sono neanche sogno: sono soprattutto fiato sospeso. La lentezza sembra materializzarsi e salire dal terreno come nebbia, nell’assenza di vento, nell’assenza di conflitti; gli altri non ci sono, o sono ridotti a sagome, figurine di carta senza volto né spessore, spesso inquadrate di spalle, in una solitudine composta e simbolica. Possono essere spazzate via con un soffio o con un gesto della mano, come quando si allontanano dal foglio i residui della gomma da cancellare. Piccoli, inoffensivi abbozzi di umanità, lontana dalle dissonanze del delirio.

Solitudine, silenzio, immobilità, interpretati ed esaltati dalle tinte mai violente: tutte le sfumature del bianco e dell’ambra, grigio, violetto, verde salvia, qualche tocco di rosso bruno. Nella pittura Utrillo abbandona i colori primari del suo tormento. Riesce a creare un lirismo sommesso e disperato in cui si coniugano la sua anima di fanciullo in cerca di protezione e la pena di un uomo che sa di usare i pennelli come morfina.

Anna Murabito     annamurabito2@gmail.com  

Utrillo-The-home-of-Mimi-PinsonAggiunta Utrillo 39 (2)Aggiunta Utrillo 2 (2)Utrillo Moulin de la GaletteUtrillo Montmartre

La Place du Tertre c.1910 Maurice Utrillo 1883-1955 Presented by the Courtauld Fund Trustees 1926 http://www.tate.org.uk/art/work/N04139

Utrillo neve e alberi stecchitiAgiunta Utrillo 37Utrillo 26 dicembreUtrillo Piazza con alberiUtrilloUtrillo Neve in una strada desertaUtrillo ScorcioAggiunta Utrillo 29Aggiunta Utrillo 30cUtrillo Immagine monocromaticaAggiunta Utrillo 38Utrillo DorotheumUtrillo Paesaggio innevatoUtrillo Piazza del Sacro CuoreAggiunta Utrillo 33Aggiunta Utrillo 27Aggiunta Utrillo 25Aggiunta Utrillo 34Aggiunta Utrillo 21Aggiunta Utrillo 36Aggiunta Utrillo 19Aggiunta Utrillo 18Utrillo Il Lapin agileutrillo montmartre sotto la neve-Utrillo-Le-Moulin-de-la-Galette-MontmartreUtrillo Strada innevatautrillo-cafe-bistroUtrillo Paesaggio desertoUtrillo Ancora MontmartreUtrillo StradaUtrillo Chiesa di San PietroUtrillo Il trio infernale

Agiunta Utrillo 17Aggiunta Utrillo 16Aggiunta Utriglio 28Aggiunta Utrillo (2)Aggiunta Utrillo 4 (2)Aggiunta Utrillo 5 (2)Aggiunta Utrilo 26Aggiunta Utrillo 6 (2)Aggiunta Utrillo 3 (2)Aggiunta Utrillo 14 (2)Aggiunta Utrillo 10 (2)Aggiunta Utrillo 12 (2)Aggiunta Utrillo 11 (2)Aggiunta Utrillo 40 (2)Aggiunta Utrillo 1 (2)Aggiunta Utrillo 15 (2)Aggiunta Utrillo 7 (2)Aggiunta Utrillo 9 (2)Aggiunta Utrillo 8 (2)

Grandi interpreti – Vladimir Horowitz

di Carlo Casagni –

Il 25 aprile 1943 il New York Times annunciava l’inizio di un’offensiva alleata contro l’Afrika Corps in Tunisia. Nel pomeriggio alla Carnagie Hall ebbe luogo un concerto probabilmente unico nella storia. Per entrare il pubblico non comprava il biglietto, l’entrata si pagava con l’acquisto di Obbligazioni di Guerra. Gli artisti che diedero questo concerto, senza ricevere alcun compenso, furono Arturo Toscanini e Vladimir Horowitz. L’orchestra era quella della NBC e il programma era tutto Tchaikovskij. Alla fine del Concerto fu messo all’asta, sempre in Obbligazioni di Guerra, il manoscritto dell’orchestrazione dell’inno americano di Toscanini. In totale furono vendute Obbligazioni di Guerra per 11 milioni di dollari.

Vladimir Horowitz (Kiev, Ucraina 1 ottobre 1903 – New York, 5 novembre 1989) inizia lo studio del pianoforte con la madre all’età di 6 anni. A 15 anni entra al conservatorio; dopo soli due anni si diploma a pieni voti e inizia quasi subito l’attività concertistica. Nella stagione 1924-25, appena ventunenne, tiene 70 concerti, 33 nella sola Leningrado, in auditori strapieni, ma nell’autunno del 1925 decide di lasciare la Russia per far carriera in Occidente. Ottenuto il visto per la Germania con la motivazione di voler completare i suoi studi con Artur Schnabel, si imbarca a Leningrado su un piroscafo per Brema con 1000 sterline nascoste nelle suole delle scarpe.

Il primo gennaio del 1926 l’agenzia Wolff-Sachs di Berlino fa pubblicare sul  Musik Zeitung  un annuncio in cui si informavano i lettori che il 2, 3, e 14 gennaio un certo Vladimir Horowitz si sarebbe esibito in tre  Klavierabende nella Beethovensaal. L’affluenza del pubblico fu scarsa,  ma le recensioni dei critici furono favorevoli. Incominciarono ad arrivare richieste di tenere altri concerti e anche registrazioni su rulli da parte della Welte-Mignon. La Germania lo aveva reso famoso, ma non ricco.

Aveva tenuto pochi concerti per onorari modesti ed era quasi in bolletta quando decise di andare a Parigi. La prima esibizione parigina di Horowitz ebbe luogo il 12 febbraio 1926 nella sala del vecchio Conservatorio di Parigi e fu un successo di pubblico e di critica. Seguirono molte altre esibizioni ed in breve tempo Horowitz divenne il pianista più richiesto e pagato.

Dal 1936 al 1939 e dal 1953 al 1965 Horowitz sospese  l’attività concertistica a causa di problemi fisici e psicologici per ritornare sul palcoscenico il 9 maggio 1965 in un concerto alla Carnegie Hall che riscosse un grande successo.  Seguirono molti concerti sia negli Usa che in Europa. L’ultimo lo dette ad Amburgo il 21 Giugno 1987 all’età di 84 anni.

Tra i più grandi virtuosi del pianoforte del XX secolo, Vladimir Horowitz è famoso per la sua tecnica pianistica e soprattutto per la raffinatezza delle sue interpretazioni dell’età matura. Ogni sua esecuzione dal vivo è diversa, perché non esprime la riproduzione sonora di un testo scritto, ma la celebrazione di un atto creativo, in cui agiscono insieme l’autore e l’esecutore.

V. Horowitz, A. Toscanini: Tchaikovsky, Piano Concerto n. 1 NBC Symphony Orchestra – Carnegie Hall Live 25 Aprile 1943 

Vladimir Horowitz – Carnegie Hall – 5 Marzo 1951

V. Horowitz, F. Reiner : Beethoven Piano Concerto n. 5 (Emperor) RCA Victor Symphony Orchestra 1952

Vladimir Horowitz – Carnegie Hall 9 Maggio 1965 Remastered  

Vladimir Horowitz – Carnegie Hall 1968 TV Concert

Vladimir Horowitz – Concerto a Mosca 1986

– / 5

Il 25 aprile 1943 il New York Times annunciava l’inizio di un’offensiva alleata contro l’Afrika Corps in Tunisia. Nel pomeriggio alla Carnagie Hall ebbe luogo un concerto probabilmente unico nella storia. Per entrare il pubblico non comprava il biglietto, l’entrata si pagava con l’acquisto di Obbligazioni di Guerra. Gli artisti che diedero questo concerto, senza ricevere alcun compenso, furono Arturo Toscanini e Vladimir Horowitz. L’orchestra era quella della NBC e il programma era tutto Tchaikovskij. Alla fine del Concerto fu messo all’asta, sempre in Obbligazioni di Guerra, il manoscritto dell’orchestrazione dell’inno americano di Toscanini. In totale furono vendute Obbligazioni di Guerra per 11 milioni di dollari.

Vladimir Horowitz (Kiev, Ucraina 1 ottobre 1903 – New York, 5 novembre 1989) inizia lo studio del pianoforte con la madre all’età di 6 anni. A 15 anni entra al conservatorio; dopo soli due anni si diploma a pieni voti e inizia quasi subito l’attività concertistica. Nella stagione 1924-25, appena ventunenne, tiene 70 concerti, 33 nella sola Leningrado, in auditori strapieni, ma nell’autunno del 1925 decide di lasciare la Russia per far carriera in Occidente. Ottenuto il visto per la Germania con la motivazione di voler completare i suoi studi con Artur Schnabel, si imbarca a Leningrado su un piroscafo per Brema con 1000 sterline nascoste nelle suole delle scarpe.

Il primo gennaio del 1926 l’agenzia Wolff-Sachs di Berlino fa pubblicare sul  Musik Zeitung  un annuncio in cui si informavano i lettori che il 2, 3, e 14 gennaio un certo Vladimir Horowitz si sarebbe esibito in tre  Klavierabende nella Beethovensaal. L’affluenza del pubblico fu scarsa,  ma le recensioni dei critici furono favorevoli. Incominciarono ad arrivare richieste di tenere altri concerti e anche registrazioni su rulli da parte della Welte-Mignon. La Germania lo aveva reso famoso, ma non ricco.

Aveva tenuto pochi concerti per onorari modesti ed era quasi in bolletta quando decise di andare a Parigi. La prima esibizione parigina di Horowitz ebbe luogo il 12 febbraio 1926 nella sala del vecchio Conservatorio di Parigi e fu un successo di pubblico e di critica. Seguirono molte altre esibizioni ed in breve tempo Horowitz divenne il pianista più richiesto e pagato.

Dal 1936 al 1939 e dal 1953 al 1965 Horowitz sospese  l’attività concertistica a causa di problemi fisici e psicologici per ritornare sul palcoscenico il 9 maggio 1965 in un concerto alla Carnegie Hall che riscosse un grande successo.  Seguirono molti concerti sia negli Usa che in Europa. L’ultimo lo dette ad Amburgo il 21 Giugno 1987 all’età di 84 anni.

Tra i più grandi virtuosi del pianoforte del XX secolo, Vladimir Horowitz è famoso per la sua tecnica pianistica e soprattutto per la raffinatezza delle sue interpretazioni dell’età matura. Ogni sua esecuzione dal vivo è diversa, perché non esprime la riproduzione sonora di un testo scritto, ma la celebrazione di un atto creativo, in cui agiscono insieme l’autore e l’esecutore.

V. Horowitz, A. Toscanini: Tchaikovsky, Piano Concerto n. 1 NBC Symphony Orchestra – Carnegie Hall Live 25 Aprile 1943 

Vladimir Horowitz – Carnegie Hall – 5 Marzo 1951

V. Horowitz, F. Reiner : Beethoven Piano Concerto n. 5 (Emperor) RCA Victor Symphony Orchestra 1952

Vladimir Horowitz – Carnegie Hall 9 Maggio 1965 Remastered  

Vladimir Horowitz – Carnegie Hall 1968 TV Concert

Vladimir Horowitz – Concerto a Mosca 1986

Vadimir Horowitz- Un ricordo

ISTANBUL

                                                          di Anna Murabito

So che non ritornerò più a Istanbul. Ci sono stata tre volte. Sembra un numero magico, inventato, invece è proprio così.
Me ne tiene lontana un uomo che in un quieto pomeriggio domenicale ha gridato e inveito contro il nostro gruppetto di quattro italiani perché il Papa aveva pronunciato parole sgradite all’Islam. Me ne tiene lontana quel vento che nella vita si mette a soffiare in direzione contraria rispetto ai progetti.
Oggi Istanbul per me è solo nostalgia. Nostalgia degli occhi e di tutti i sensi. Non so se l’ho capita. Non pretendo di descriverla.
Lì ho visto il mare blu denso come la notte, quel mare che si confà alla terra e la circonda, con le scie, chiare sull’acqua, di vascelli che trasportano seta e zafferano.
È un mare che conosco, il mare della Grecia, il mare dello stretto di Messina, il mare di Omero e di Brassens (“intingi, intingi, mon tabellion, la tua penna nell’inchiostro blu del golfo del Leone”). Mito ed eternità. Spesso sudario: nei fondali è stato ritrovato ancora il vino negli orci di terracotta delle antiche imbarcazioni romane naufragate. Istanbul è adagiata su un mare così, con le sue immagini da cartolina turistica.
Eppure la prima volta che visitai la città furono altre le immagini che colpirono la mia fantasia. Un albergo di extra lusso, l’Hilton, una colazione degna di Sardanapalo, un favo di miele intero e un dolce orientale, la Helva o Halva, il cui nome andrebbe benissimo anche per una donna. La prima sera conobbi il fiume giallo, non quello cinese, ma quasi. Infiniti, i taxi scorrevano lungo i larghi viali di Barbaros, il quartiere residenziale del nostro albergo. Un flusso ipnotizzante e mutevole, visto attraverso le finestre di vetro a parete intera, bello come la fiamma del camino, con i fari che emergevano dall’asfalto nero. Lucciole mostruose e benefiche. La mente vuota. E una sorta di onirica confusione, forse era un film. La città mi era sembrata sterminata arrivando. Mai vista una uguale.
Un pessimo caffè turco nel pomeriggio, non sapevo che bisognasse aspettare prima di bere. E poi un negozietto primitivo in cui andammo a comprare l’acqua e qualche biscotto, il gruppo sarebbe arrivato l’indomani. Il padrone chiese a mio marito se io e la mia amica fossimo le sue mogli. Il suo orizzonte non oltrepassava il viale Barbaros.
Nei giorni che seguirono, Istanbul mi sembrò come una medusa, impossibile capire dov’è la testa, dove le appendici. Città disorientante e “tentacolare”, che però, pezzettino per pezzettino è a misura d’uomo, con qualcosa di intimo, quasi di provinciale, come nell’episodio del negozietto e in mille altre circostanze, tutte mansuete, e legate a un concetto di umanità che nulla ha a che vedere con la metropoli cinica e indifferente. Abitanti gentili. Ondate di profumi e allettamenti.
Giravamo sempre con il gruppo, con quel procedere strano e asfittico dovuto allo sforzo di adeguarsi a un ritmo innaturale. Abituata ai viaggi liberi con mio marito, al nostro vagare in tenda ovunque l’Europa ci avesse accolti, mi sentivo imprigionata. Mi limitavo a prendere appunti mentali con l’intenzione (prima ancora di aver visitato i monumenti) di tornare in quella città adagiata sul mare, piena di odori sensuali, colori mai visti, strade sconnesse e marciapiedi rotti. Una città che, come una canzone conosciuta, tornava nella mente pur non avendola mai imparata. La sera ci ripromettevamo di guardare i taxi, come chi si aspetta di sentirsi raccontare ancora la stessa favola.
Ricordo il freddo di quel primo viaggio, eravamo alla fine di marzo e c’erano zero gradi. E la vista dei tanti fedeli che fuori dalle moschee si lavavano i piedi con l’acqua gelata. Ricordo i cimiteri di pietra bianca, con la loro simbologia elementare, turbanti per gli uomini, rose per le donne. Amore per sempre nel silenzio? Chissà. Magari si odiavano. Istanbul alimenta favole e intrighi.
Ricordo la Cisterna, le grandi moschee e i profumi che prendono a tradimento. Topkapi e la Reggia di Dolmabahçe, adagiata sul Bosforo, gli specchi dorati e gli orologi fermi a celebrare l’ora della morte di Atatürk. Tutti gli itinerari turistici, insomma, e le sensazioni che avrebbero trovato conferma negli altri viaggi, con delle varianti tuttavia. Allora (anni ’90) Istanbul era ancora la città di Atatürk. E le ragazze circolavano in minigonna alle dieci di sera sul viale Barbaros. Oggi è la città di Erdogan. E non è più la stessa cosa.
Già quando ci sono ritornata in automobile era cambiata. Molte donne vestite di nero. Molte ragazze col velo, spavalde, quasi a rivendicare l’orgoglio della loro schiavitù. A chiamare tradizione l’assoggettamento.
La Turchia che abbiamo attraversato in macchina per arrivare a Istanbul venendo dalla Grecia, non era più Europa. Ore di fila alla dogana, dove nessuno parlava una dannata lingua straniera, strade deserte e sconnesse, nessun luogo di ristoro lungo il percorso. Ogni tanto una piccola città dal fascino distante emergeva dal mare, quasi sempre con l’impressione di trovarti in un altro mondo. Poi, a circa trenta chilometri dalla metropoli, la musica cambiava: traffico pesante in autostrada, quattro corsie in un direzione quattro nell’altra e un inferno di automobili, autocarri, autobus, uno strepito esagerato, cannibalesco. Il fiato del drago arrivava lontano.
Arrivammo in una città che ci apparve non solo sterminata (questo lo sapevamo) ma nemica: vie senza nome, porte senza numeri, buche, terribili salite e discese, un temporale violentissimo, le strade scorrevano, gli oggetti galleggiavano. Vicoli da cui era difficile uscire, uomini con carichi sulle spalle più degni di una gru. E only turkish only turkish only turkish, l’unica lingua parlata, l’unica lingua che non ci serviva, l’unica risposta che non ci serviva.
Il padrone dell’albergo, in cui alla fine arrivammo lieti di aver salvato la pelle, ci requisì perentoriamente le chiavi della macchina e pretese di guidare lui fino al parcheggio, maltrattando le marce della mia Punto. Non potevamo più spostarla, ci disse. Quello era il posto della nostra automobile per tutti gli otto giorni di permanenza. Se l’avessimo abbandonato per un momento non l’avremmo più ritrovato. Mi sembrò un cattivo inizio, ma poi arrivammo nella stanza e trovammo un ambiente intimo e pulitissimo, con una grazia antica, incantevole. Si chiamava Orient Express, l’albergo, e il nome mi aveva ispirato timori. “Dove mi stai mandando?”, avevo chiesto ironicamente alla nostra agente di viaggio. “Stai tranquilla”.
Un soggiorno felice, Bejoglu, Sirkeci, nomi cari alla mia memoria, sembrava un quartiere di pochi metri quadrati e invece erano chilometri quadrati. Una stradina profumata dalle delizie preparate in un panificio poco distante, una ragazza in vetrina che annodava tappeti di seta, un agente di cambio. Un ambiente primo Novecento, le meravigliose ciambelle col sesamo della prima colazione, i dolci alle mandorle, il caffè che avevo imparato a bere. E un paesaggio di antichi palazzi con un gabbiano di pietra su un comignolo. Mi incantavo a guardarlo dalla nostra stanza, strano soggetto. Finché una sera tornando “a casa” non lo vedemmo. Era volato via, aveva trovato la sua anima ed era partito per un’altra vita.
La mitica stazione dell’Orient Express, così vicina al nostro albergo, era più antica e più buia di come l’avevo immaginata, con una finestra dai vetri colorati da cui filtrava una luce speziata. Un’atmosfera estatica. Un uomo fermo in una posa da dipinto, forse assopito. Come quei vecchi immobili con gli occhi perduti nel loro corto avvenire che sembrano aspettare un evento che non si compirà mai. Ma quell’uomo non era vecchio. Forse non esisteva, o forse sì: Istanbul alimenta visioni. Comunque so di averlo fotografato, non vaneggio.
Ora la città era nostra e cominciavo a comprenderla più di quella prima volta. La sentivo nel suo ritmo profondo, la sentivo brulicare. Lontana da quell’andare scomposto ed affannato di folle pezzenti, Istanbul brulica naturalmente e nobilmente nelle cose e nella storia, nei taxi avventurosi, nei sapori che riscaldano la gola, nel caleidoscopio delle spezie, nell’afrore che sembra levarsi ancora dalle stanze delle concubine.
Vagavamo, in questa città immaginaria e onirica, e chiedevamo, da poveri europei legati ai loro schemi, una mappa con il percorso degli autobus, ma nessuno ci capiva. Né i bigliettai, né gli operatori dei traghetti né gli impiegati dell’Ufficio del Turismo. Un direttore delle Poste ci ricevette con ogni onore, ma no, no, non capiva cosa chiedessero questi turisti, forse perché a Istanbul la mappa che chiedevamo noi non esisteva. Ma che importava? Usciti dall’Ufficio Postale ci accolse un sole glorioso nell’aria sempre frizzante della città e una vecchia donna distribuiva il mangime alle tortore e ai colombi mentre dal vicino Bazar delle Spezie fuoriuscivano effluvi mai sentiti.
Avidi, inventammo un itinerario e percorremmo con un autobus strade comuni fuori dal centro urbano. Arrivammo in zone “vicine” all’integralismo, vedemmo ragazzini giocare su strade sterrate e rigagnoli d’acqua, forse fogne a cielo aperto. Così avevo immaginato qualche quartiere degradato di Rio de Janeiro. Perché non scendete, ci chiese a gesti l’autista, facendoci capire che “fine”, era il capolinea. “Tourism”, rispondemmo, sperando che almeno quella parola la capisse. La capì. “Tourism! Tourism!”, non finiva di ridere. Ma noi contavamo i giorni che ci separavano dalla partenza, perché non volevamo che arrivasse troppo presto.
Molte volte abbiamo attraversato a piedi, sempre nel sole, il ponte di Galata, e sempre abbiamo visto pescatori con lenze lunghissime, immobili. Qualche volte ho pensato che i pescatori fossero sagome e i pesciolini finti. Ma poi ho visitato i banchi delle taverne sotto il ponte e sentito il profumo delle fritturine che venivano approntate e offerte ai passanti nei cartocci. Pesciolini veri. Pesciolini d’oro?
Tutte le donne ormai vestivano di nero e anche i giovani uomini. Il sabato pomeriggio era impossibile camminare senza temere di essere sommersi da un’onda a lutto. L’illuminazione della città era stata migliorata e la sera una sorta di magia appagava la vista.
Recuperammo l’automobile dopo gli ultimi giri nostalgici, con negli occhi il blu del mare e della Moschea designata con lo stesso colore. Comprammo le ultime ciambelle al sesamo. Vicini al confine con la Grecia fummo fermati per un controllo. Ma non fu un controllo, fu una catastrofe, fu la bocca amara, l’incursione della realtà e la promessa fatta a noi stessi che mai saremmo tornati in Turchia in automobile. Dopo una lunghissima attesa, ci invitarono a scaricare l’automobile. Noi avevamo fatto tutto il viaggio in tenda tranne la sosta a Istanbul prevista in albergo, e la nostra macchina era la nostra casa, con tutto disposto secondo un criterio, un’infinità di oggetti da trovare anche a occhi chiusi, i sacchi a pelo, le vettovaglie, gli asciugamani, ciascuno col suo scomparto. Cominciammo a scaricare mettendo tutto per terra su un marciapiede e alla fine l’impiegato ci dette una mano perché era un’operazione faticosa e gli facemmo pena. Sollevarono l’automobile come quando si fa il cambio dell’olio, poi la passarono a lungo sotto un bombardamento di raggi x e, solo dopo aver constatato che non avevamo rubato nessun reperto archeologico, ci lasciarono andare con tutto il nostro carico violato da risistemare. Tre ore? Una mattinata. Con una sorta di rabbia sorda, e le ciambelline andate in malora perché rimaste, unico oggetto, nell’abitacolo dell’automobile e ora probabilmente contaminate di radioattività. Le buttai come ci si butta alle spalle un addio. E subito dopo il confine di nuovo improvvisamente Europa, comprese le nenie greche che giudicavo insopportabili e i dolci stucchevoli e appiccicosi, ma venduti al supermercato.
Non posso dire di aver capito bene questa città. Né geograficamente (ogni volta che guardo la cartina, vedo dov’è il Bosforo e dov’è il Corno d’oro, ma poi lo dimentico) né intellettualmente. L’affascinante Gran Bazar, per esempio, ospita una specie non umana, quella dei commercianti puri. Lì si vende e si compra il mondo intero, dal tappeto pregiato alla paccottiglia di plastica, dalle montagne di spezie di tutti i colori agli oggetti di antiquariato e alle stampe antiche, fino alle scarpe da ginnastica per i ragazzi. In una città in cui non si parla nessuna lingua, lì si parlano tutte le lingue e si possono imbastire anche lunghe conversazioni stereotipate. La parola amico è abusata. E i vassoi di the alla mela che vanno e vengono non sono espressione della gentilezza orientale ma pura tecnica di vendita.
Mi dispiace non aver incrociato lo sguardo di nessuno. Solo una volta una ragazzina ci rincorse da un negozietto con in mano un paio di cucchiaini di plastica: come avremmo fatto, sennò, a mangiare lo yogurt? E i suoi occhi erano “ridenti e fuggitivi” come quelli di un’altra fanciulla di qualche anno meno giovane, di molto tempo fa.
Poi, durante l’ultimo viaggio, ho incrociato lo sguardo di una giovane donna turca, di nome Gül, che significa rosa. Anzi ho parlato a lungo con lei. Il mio terzo viaggio in Turchia fu ancora un viaggio organizzato, un indimenticabile giro dei siti archeologici dell’Anatolia tra cui Pergamo (l’Ara è oggi interamente ricostruita in un museo di Berlino). Il giro includeva anche Istanbul e allungammo un po’ il soggiorno per consentire a un’amica che non conosceva la città di raggiungerci. Gül era la nostra guida. Con un corpo agile ed elastico, si inerpicava a velocità per strade antiche che ci affaticavano, si fermava a raccogliere pistacchi insipidi e ce li offriva, nel cavo della mano. Era stata tre anni in centro Italia, dove aveva studiato e aveva degli amici che l’avevano implorata di non tornare in Turchia. Amava un uomo. Sposato. Per questo era tornata. “Sei pazza”, le dissi, “non lascerà mai la moglie”. “Ma lui…” “Sei pazza, torna in Italia”. “Non so se mi lasciano tornare”. Un’altra moglie, la moglie di Erdogan si era già mostrata in pubblico col velo e in atteggiamento dimesso, come si conviene a una vera donna islamica. Non ho saputo più nulla di Gül. “Capisco l’Europa che non ci vuole”, diceva.
Quella volta sapevamo a memoria certi ambienti e certe strade e sbalordimmo la guida, non Gül, un giovane uomo, quando, stanchi di vedere per la terza volta la famosa Cisterna, gli dicemmo che eravamo in grado di tornare in albergo da soli. “Conoscete Istanbul così bene? Ma è un’ora di strada, forse più”. L’avremmo fatta. Traversammo il Ponte di Galata, ritrovammo una via lunghissima e stretta che sale terribilmente o scende secondo la direzione di marcia. Piccoli negozi, ferramenta, gommisti, idraulici, elettrauto, uomini-muli, buche-attentati, attrezzi segosi e strepito. Quando arrivammo finalmente alla stazione del vecchio tram, trovammo l’inizio della famosa Istiklal, almeno pianeggiante e dritta. Quest’arteria così nota non ha nulla, non dico degli Champs-Élysées o della Unter der Linden, ma neanche dei tanti anonimi viali alberati delle città europee. È una strada provinciale e non caratterizzata in cui continua, appena più elegante, il fervore commerciale della città. Nient’altro. Solo qualche locale d’atmosfera, mai buona musica.
Molte volte mi sono imbarcata sui tanti traghetti, ho guardato i profili delle moschee e i palazzi antichi sull’acqua che, non so perché, mi toccavano il cuore. Non ci sono nella città capolavori d’arte che si impongono al primo sguardo. Mai penserei alla musica di Mozart pensando a Istanbul. Istanbul non è limpida, è vaseuse, come dicono i francesi, torbida, indistinta come la nostalgia di una vita che finisce nel momento stesso in cui la si vive. Soprattutto nei tramonti quando il sole si perde in pulviscolo dorato, e diventa respiro, diventa agonia. Venezia celebra la morte, ogni giorno. Istanbul celebra il languore e l’estenuazione. Musset, malato, scoraggiato e tradito da George Sand, scrisse che i veneziani “vanno in barca su delle fogne dentro sarcofagi neri”. Per Istanbul bisognerebbe inventare una poesia che celebri l’oro e l’ocra delle sue atmosfere. Ma non conosco i poeti di Istanbul. Venezia è interamente europea, pagana, coerente, raffinata, invade gli occhi con la sua arte “estrema”. Istanbul è orientale, sovrabbondante, mercantile e tuttavia ardente di una sorta di misticismo sragionante e altero che grida nelle disperate geometrie delle sue maioliche.
Come per Morte a Venezia le note dell’Adagietto hanno accompagnato le scene del film, così penso ancora a Mahler per Istanbul, più che a Sheherazade. Non è tutta favola, questa città. È vero, una volta, l’ultima, l’ho vista dalla terrazza del nostro albergo e assomigliava proprio alla favola classica con il cielo che regala al mare il velluto, con le imbarcazioni col gran pavese e le luci “in capo ai minareti”.
Se dovessi definire Istanbul, direi che è una favola sterminata e ambigua che annega ogni giorno con il suo stridore. Ecco perché Mahler mi sembra adatto ad accompagnare il mio ricordo, quel Mahler che non trova una composizione tra passato e presente, ma a volte li giustappone dolorosamente.
Eravamo ancora una volta sul traghetto, la classica gita sul Bosforo, quando la mia amica che ci aveva raggiunti esclamò: “Eccoti. Quaranta chili di passione, ci hai trascinati tutti qui”. Guardavo i palazzi. E, non è un finale melenso e scontato, “sapevo” che non ci sarei più tornata.

KÉRALI

                                di Anna Murabito                             

          Marzo 2020. Inizio della pandemia, con le strade deserte.

Un silenzio così l’ho sentito solo in Bretagna. Ma non era il silenzio malvagio e sinistro di oggi.
Marzio ed io avevamo preso in affitto una piccola casa in un posto sperduto, in aperta campagna. Non avevamo trovato di meglio per i prezzi insensati degli affitti. Alla fine avevamo ceduto, scegliendo una spesa ragionevole.
Era come la nostra tenda, solo molto più grande: tre stanze con angolo cottura. Per così dire. Senza un mobile, costruita da un contadino: si vedeva dalle molte irregolarità e manchevolezze. Ma io ero contenta. I primi giorni avevamo aperto la tenda, quella vera, in “soggiorno” e dormito sui materassini gonfiabili. Poi eravamo tornati in Italia, avevamo caricato a dismisura l’automobile di Marzio, “la vacca” la chiamavamo, perché larga e placida, materna. Ci aspettavamo che ci nutrisse col suo latte.
Sulla vacca trasportammo tutto quello che ci poteva servire: una scrivania pieghevole che divenne tavolo da pranzo, quattro sedie in plexiglass e due “da regista”, un fornello elementare a tre fuochi, molta biancheria da letto. Anche il materasso, sotto forma di enorme rotolo di gommapiuma su cui poi stendemmo invano coperte e sacchi a pelo nel tentativo di renderlo più spesso e più morbido.
Fu un dolce precipitare nella vita primitiva, una sorta di gioco languido e disimpegnato, un esilio volontario nel Ponto Eusino, da cui ci bastava l’idea di potere uscire e vagare per trovare le meraviglie degli occhi e del cuore che la natura bretone elargisce. Uscivamo con parsimonia, però: dopo ci dovevamo “curare”. È proprio vero che la bellezza confina col dolore.
Marzio aveva progettato con largo anticipo il letto che avrebbe costruito. Così, dopo un viaggetto di 1.700 chilometri, appena arrivati andammo al Brico per comprare la legna tagliata secondo le misure, tante assi lunghissime, tante assi più corte. Tante viti da legno, con il buon peso. L’indomani il letto fu pronto con i comodini ricavati dalla testiera. Un incrocio tra l’idea di un architetto barbone della Magna Grecia e un pezzo di design svedese. Con un po’ di mito di Ulisse. Anche le indispensabili lampade per la lettura serale furono estratte dal mucchio delle masserizie e collocate al loro posto.
Un grande campo davanti e, lontani, dei castagni secolari a scandire il confine della proprietà: questo era il paesaggio. Una porta d’ingresso a vetri in unico strato. Nessuna recinzione. Solo dopo mesi e qualche contrattazione con i padroni di casa, ottenemmo una siepe, che rimase sempre stenta e alta non più di trenta centimetri. La “haie”, così si chiama in francese la siepe, nello stesso modo in cui si chiama la città in cui ha sede il Parlamento olandese. Al centro del campo un pino assai buffo, anch’esso molto piccolo, non andò mai oltre il mezzo metro d’altezza. I proprietari l’avevano piantato per i bisnipoti, credo.
Era uno strano posto, brutto abbastanza per guarirci dalla Sindrome di Stendhal. Eppure in quel posto ho vissuto una vita trasognata e felice. Ho giocato a fare la contadina, stendendo la biancheria tra due pali sul prato. Bisognava riportarla a casa “en catastrophe” quando si metteva improvvisamente a piovere: il che avveniva una decina di volte al giorno. Ma il sole acceso sulle lenzuola era una iperrealistica realizzazione della luce e del colore.
Unico lusso la lavatrice. Per il resto, il latte sul davanzale a godersi il fresco della notte; la spesa ogni giorno; qualche capriccio alimentare. La musica, immancabile. E libri. Quando li avevamo finiti, andavamo a Parigi (una passeggiata di cinquecento chilometri) e, senza degnare di uno sguardo la città, rientravamo da Boulevard Saint Michel con le sporte piene di altri libri. Ho riletto i Tragici Greci, Delitto e Castigo, I Fratelli Karamazof, col piacere indicibile di dimenticare la lingua in cui leggevo. Di notte ascoltavamo un bel programma radiofonico di jazz, “Suivez le thème”, con un presentatore dalla voce calma, suadente e lontana, come la voce immaginata di un narratore di favole, così diverso dal francese del mito, spocchioso e vanesio.
Qualche volta chiacchieravamo con i nostri padroni di casa. Ma lo stretto indispensabile. La signora parlava un francese che risentiva ancora della dura parlata bretone, un tormento per le raffinatissime orecchie di Marzio. Così avveniva che lui esitasse conversando con lei, anche perché non si sforzava di capirla tanto quel francese era lontano dalla lingua di Maupassant e Rimbaud e anche dalla lingua corrente di una persona normalmente alfabetizzata. E allora la signora cominciava a scandire i verbi coniugati all’infinito ed io dovevo scappare in cucina a ridere. Devo a lei il peggiore stufato della mia vita. “Abbiamo ammazzato il vitello” ci disse portando un vassoio di carne. Mi assicurò che potevo cucinarlo l’indomani. Ma gli aromi e il buon vino francese non riuscirono a salvare la carne di coccodrillo che portai in tavola.
Il marito era un uomo gradevole, abbastanza evoluto in rapporto alla moglie, aveva a lungo lavorato nel métro di Parigi. Non so come aveva sviluppato la mania del fai da te che applicava soprattutto all’edilizia. Una volta ci portò in campagna a mostrarci un wc all’aperto, ben schermato dalle fronde. Per i suoi ospiti, ci disse, per godere del contatto con la natura. E ci promise che ci avrebbe costruito un garage. In uno dei nostri rientri lo trovammo, ma l’uomo aveva proceduto a occhio, così nel garage entrava poco più che mezza automobile. La povera vacca mostrava a tutti il suo “cul” come dicono in Francia familiarmente per indicare la parte posteriore delle vetture. Qualche volta negli anni successivi, passando davanti alla nostra ex casa, abbiamo visto che il garage era sempre lì. Anche la siepe, alta non più di trenta centimetri. E il pino nano, quasi sommerso dall’erba.
La casa si chiamò Kérali, un nome strano, tipo Shangry-la, ma in realtà meno evocativo. Derivava semplicemente da Ker, che in bretone significa “casa” e Alì, una parte del mio similnome. Certo ho avuto case migliori. Credo.
Lì ho conosciuto il bosco, col suo sentiero principale tracciato e sempre più stretto. Per me, la ragazza del secondo piano, come mi chiamava Marzio, un’autentica meraviglia. Lì abbiamo spesso passeggiato ed ho visto cosa significa autunno al Nord, con le felci e il muschio sempre più vigoroso, sempre più vellutato e strisciante, e le edere potenti che guadagnavano giorno dopo giorno un posto alla luce, un posto sui muri. Veniva voglia di individuarne la traccia di bava. Era tutto un brulichio.
Ma sto mescolando i tempi. L’autunno l’ho visto in ottobre inoltrato quando le giornate erano cortissime e l’umidità si confondeva col crepuscolo. Poco prima di tornare definitivamente in Italia. Quando il colore della vite americana bruciava come un’onta. E altrettanto bruciava il mio rimpianto, ancor prima di lasciare quel posto.
Ogni tanto per qualche impegno impellente tornavamo in Italia. Una volta, al rientro, avvenne qualcosa. Il campo di solito brullo o verde d’erba ora era diventato un campo di cotone, ma più bello, fiori bianchi su alti steli mossi dal vento col cielo insolitamente azzurro quel giorno: sembrava un quadro di Van Gogh. “Cos’è?” chiesi alla padrona contadina. “Il grano saraceno”, mi rispose, sorpresa dalla mia imperdonabile incultura.
Ho passato molto tempo a fotografarlo. Poi, non l’ho mai più visto nella vita. Diventò giallino, e dopo marrone chiaro. Tante damigelle di sposa precocemente invecchiate come per un trucco elettronico. Mi è rimasto negli occhi.
E nelle orecchie mi è rimasto il silenzio. La notte soprattutto. Nel buio assoluto di un cielo spesso senza stelle. Con la sensazione del sangue che pulsa nelle tempie. Ci si sente legati a quel flusso che potrebbe interrompersi e allora addio Sindrome di Stendhal, maree, fari, Mozart e John Coltrane. Via per sempre grano saraceno in fiore. Vita che se ne va, come una damigella di sposa precocemente invecchiata.
Ma allora la morte era solo un piccolo pensiero, verde come il veleno, da scacciare.

                                                KÉRALI | expressioni (myblog.it)  

Tre poesie d’amore – di Anna Murabito

di Anna Murabito

SONO QUI

All’improvviso ti vedo
nitido ed acuto
cristallino
tra la folla d’ovatta:
sei tu
lama
calamita
oro
Terra Promessa.
Sei l’America.
Ed ho le braccia aperte.
Ti vengo incontro
lentamente
accarezzando l’attesa
di appoggiarmi al tuo petto
di varcare il tuo confine
di vederti chiudere gli occhi
sul mio bacio.
Sono qui
vivo il tuo respiro
di geranio rosso
sono qui
voce di luna
contrappunto
al tuo canto di terra.
Sono qui per amarti.

I AM HERE

Suddenly I see you
limpid and sharp
crystal clear
in the padding crowd:
that’s you
blade
magnet
gold
Promised Land.
You’re America.
And my arms are open.
I meet you
slowly
caressing my waiting
to lean against your chest
to cross your boundary
and see you close your eyes
on my kiss.
I am here
I live your breath
of red geranium
I’m here
voice of Moon
counterpoint
to your song of Earth
I’m here to love you.

NON SAI CHI SONO

Non sai chi sono, dici.
Che t’importa?
Tienimi nel taschino
e fumami
ogni tanto.
Tienimi tra i denti
dolcemente
come un cucciolo inerme.
Tienimi nella tua mano
e guardami
come un ragazzo curioso.
Vivimi nel corpo
come sostanza proibita.
Lasciami riposare
dentro la tua anima.

YOU DON’T KNOW WHO I AM

You don’t know who I am, you say.
Why do you care?
Keep me in your breast pocket
and smoke me
sometimes.
Keep me between your teeth
sweetly
as a defenceless kitten.
Keep me in your hand
and look at me
as a curious boy.
Live me in your body
as a forbidden drug.
Let me rest
inside your soul.

TI DIRO’ ALTRE COSE

Nessuna donna mai ti ha detto:
ti amo alla follia.
E neanch’io.
Ti dirò altre cose.
Indosserò il cappotto oltre l’inverno
arriverò da te sudata
trafelata
per farti ridere
dei miei abiti nuovi
fuori stagione
acquistati per te.
Farò cadere ai tuoi piedi
la pudicizia
sciogliendoti sul petto
i miei capelli lunghi di ragazza
nuova all’amore.
Strapperò le erbacce
alla mia anima
perché tu possa leggerla.
Passeggerò
con i tuoi pensieri stanchi
per essere un sorriso della mente.
E il mio giardino aspetterà i tuoi fiori.
Non ti dirò ti amo.
Non serve.
L’amore ti vale ogni giorno
un biglietto per la vita
ma una danza d’ombra
ti corteggia da presso
e ti irretisce con le sue spire
sinuose ed oblique.
Non ti dirò ti amo.
Ti dirò non morire.
Ma se ti accorgi
che il tuo tempo è passato
ti amerò oltre il tuo tempo.
La mia bocca
raggiungerà il tuo silenzio.
Le mie mani scosteranno la nebbia
per cercarti.
La mia voce fenderà il cuoio
della tua lontananza.
Il mio respiro
cullerà
da vicino
la tua traccia nel nulla.

I’LL TELL YOU OTHER THINGS

No woman has ever told you:
I am madly in love with you.
Neither have I.
I’ll tell you other things.
I’ll wear my overcoat beyond the winter
I’ll come to you sweating
panting
to make you laugh
of my new dresses
out of season
bought for you.
I’ll drop at your feet
my demureness
loosening on your chest
my long hair of maiden
new to love.
I’ll tear up the weeds
of my soul
so that you can read it.
I’ll go strolling
with your tired thoughts
to be a smile of the mind.
And my garden will wait for your flowers.
I won’t tell you I love you.
No use.
Love offers you every day
a ticket for life
but a dance of shadow
courts you closely
and nets you in coils
tortuous and oblique.
I won’t tell you I love you.
I’ll ask you not to die.
But if you realize
that your time is over
I’ll love you beyond your time.
My mouth
will reach your silence.
My hands will put aside the fog
to look for you.
My voice will cleave the leather
of your remoteness.
My breath
will dandle
closely
your track in the nothing.

(traduzione di Gianni Pardo)

Anna Murabito     alimarbit@yahoo.com

 

TRE POESIE D’AMORE

ITALY - CIRCA 2002: Paris, Musée Du Louvre Cupid and Psyche, 1787-1793, by Antonio Canova (1757-1822), marble figure group, 155x168 cm. Detail. (Photo by DeAgostini/Getty Images)

ITALY – CIRCA 2002: Paris, Musée Du Louvre Cupid and Psyche, 1787-1793, by Antonio Canova (1757-1822), marble figure group, 155×168 cm. Detail. (Photo by DeAgostini/Getty Images)

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di Anna Murabito

SONO QUI

All’improvviso ti vedo
nitido ed acuto
cristallino
tra la folla d’ovatta:
sei tu
lama
calamita
oro
Terra Promessa.
Sei l’America.
Ed ho le braccia aperte.
Ti vengo incontro
lentamente
accarezzando l’attesa
di appoggiarmi al tuo petto
di varcare il tuo confine
di vederti chiudere gli occhi
sul mio bacio.
Sono qui
vivo il tuo respiro
di geranio rosso
sono qui
voce di luna
contrappunto
al tuo canto di terra.
Sono qui per amarti.

I AM HERE

Suddenly I see you
limpid and sharp
crystal clear
in the padding crowd:
that’s you
blade
magnet
gold
Promised Land.
You’re America.
And my arms are open.
I meet you
slowly
caressing my waiting
to lean against your chest
to cross your boundary
and see you close your eyes
on my kiss.
I am here
I live your breath
of red geranium
I’m here
voice of Moon
counterpoint
to your song of Earth
I’m here to love you.

NON SAI CHI SONO

Non sai chi sono, dici.
Che t’importa?
Tienimi nel taschino
e fumami
ogni tanto.
Tienimi tra i denti
dolcemente
come un cucciolo inerme.
Tienimi nella tua mano
e guardami
come un ragazzo curioso.
Vivimi nel corpo
come sostanza proibita.
Lasciami riposare
dentro la tua anima.

YOU DON’T KNOW WHO I AM

You don’t know who I am, you say.
Why do you care?
Keep me in your breast pocket
and smoke me
sometimes.
Keep me between your teeth
sweetly
as a defenceless kitten.
Keep me in your hand
and look at me
as a curious boy.
Live me in your body
as a forbidden drug.
Let me rest
inside your soul.

TI DIRO’ ALTRE COSE

Nessuna donna mai ti ha detto:
ti amo alla follia.
E neanch’io.
Ti dirò altre cose.
Indosserò il cappotto oltre l’inverno
arriverò da te sudata
trafelata
per farti ridere
dei miei abiti nuovi
fuori stagione
acquistati per te.
Farò cadere ai tuoi piedi
la pudicizia
sciogliendoti sul petto
i miei capelli lunghi di ragazza
nuova all’amore.
Strapperò le erbacce
alla mia anima
perché tu possa leggerla.
Passeggerò
con i tuoi pensieri stanchi
per essere un sorriso della mente.
E il mio giardino aspetterà i tuoi fiori.
Non ti dirò ti amo.
Non serve.
L’amore ti vale ogni giorno
un biglietto per la vita
ma una danza d’ombra
ti corteggia da presso
e ti irretisce con le sue spire
sinuose ed oblique.
Non ti dirò ti amo.
Ti dirò non morire.
Ma se ti accorgi
che il tuo tempo è passato
ti amerò oltre il tuo tempo.
La mia bocca
raggiungerà il tuo silenzio.
Le mie mani scosteranno la nebbia
per cercarti.
La mia voce fenderà il cuoio
della tua lontananza.
Il mio respiro
cullerà
da vicino
la tua traccia nel nulla.

I’LL TELL YOU OTHER THINGS

No woman has ever told you:
I am madly in love with you.
Neither have I.
I’ll tell you other things.
I’ll wear my overcoat beyond the winter
I’ll come to you sweating
panting
to make you laugh
of my new dresses
out of season
bought for you.
I’ll drop at your feet
my demureness
loosening on your chest
my long hair of maiden
new to love.
I’ll tear up the weeds
of my soul
so that you can read it.
I’ll go strolling
with your tired thoughts
to be a smile of the mind.
And my garden will wait for your flowers.
I won’t tell you I love you.
No use.
Love offers you every day
a ticket for life
but a dance of shadow
courts you closely
and nets you in coils
tortuous and oblique.
I won’t tell you I love you.
I’ll ask you not to die.
But if you realize
that your time is over
I’ll love you beyond your time.
My mouth
will reach your silence.
My hands will put aside the fog
to look for you.
My voice will cleave the leather
of your remoteness.
My breath
will dandle
closely
your track in the nothing.

(traduzione di Gianni Pardo)

Anna Murabito     alimarbit@yahoo.com

TRE POESIE D’AMORE | expressioni (myblog.it) 

 

FINIS TERRAE di Anna Murabito

Perdere

Voler morire
adagiata su un fianco
come una barca bretone
che diviene relitto
a poco a poco.
Sentire il legno
tramutarsi in muschio
affondare
nella melma dei fiordi
che pure trattiene, remoto,
l’odore vivo del mare.
Continuare a viaggiare
ogni giorno
con le maree
incatenate alla Luna.
Ma non è questo morire.
Morire è confondersi:
respirare il sale
bere l’inchiostro
non sapere che fare delle mani
non riuscire a contare
fino a due.
Morire è perdere:
perdere l’anfratto introvabile
l’alternativa
l’unica chiave
dentro l’inesistenza del tombino.

Perdre

Vouloir mourir
allongée sur un côté
comme un bateau breton
qui devient épave
peu à peu.
Sentir le bois
se changer en musc
sombrer
dans la vase des abers
qui retient pourtant,
comme un soupçon,
la vive odeur de la mer.
Continuer à voyager
tous les jours
avec les marées
enchaînées à la Lune.
Mais mourir ce n’est pas cela.
Mourir est se confondre:
respirer le sel
boire l’encre
ne pas savoir que faire de ses mains
ne pas réussir à compter
jusqu’à deux.
Mourir est perdre:
perdre l’introuvable cachette
l’alternative
la seule clé
dans l’inexistence
de la grille inaperçue.

(traduzione di Gianni Pardo)

Anna Murabito alimarbit@yahoo.com

https://expressioni.myblog.it/

FINIS TERRAE

di Anna Murabito

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Perdere

Voler morire
adagiata su un fianco
come una barca bretone
che diviene relitto
a poco a poco.
Sentire il legno
tramutarsi in muschio
affondare
nella melma dei fiordi
che pure trattiene, remoto,
l’odore vivo del mare.
Continuare a viaggiare
ogni giorno
con le maree
incatenate alla Luna.
Ma non è questo morire.
Morire è confondersi:
respirare il sale
bere l’inchiostro
non sapere che fare delle mani
non riuscire a contare
fino a due.
Morire è perdere:
perdere l’anfratto introvabile
l’alternativa
l’unica chiave
dentro l’inesistenza del tombino.

Perdre

Vouloir mourir
allongée sur un côté
comme un bateau breton
qui devient épave
peu à peu.
Sentir le bois
se changer en musc
sombrer
dans la vase des abers
qui retient pourtant,
comme un soupçon,
la vive odeur de la mer.
Continuer à voyager
tous les jours
avec les marées
enchaînées à la Lune.
Mais mourir ce n’est pas cela.
Mourir est se confondre:
respirer le sel
boire l’encre
ne pas savoir que faire de ses mains
ne pas réussir à compter
jusqu’à deux.
Mourir est perdre:
perdre l’introuvable cachette
l’alternative
la seule clé
dans l’inexistence
de la grille inaperçue.

(traduzione di Gianni Pardo)

Anna Murabito alimarbit@yahoo.com

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SCUOLE DI SCRITTURA CREATIVA

di Anna Murabito

La bottega di Verrocchio era frequentata da molti ragazzi che imparavano a disegnare e a mescolare i colori. Uscirono molti onesti pittori, da quella bottega. Ma un solo Leonardo. Si può insegnare la pittura, non l’arte.

La nostra società è percorsa da uno strano fenomeno: in un momento storico così povero persino di cultura elementare, si cerca di “produrre” scrittori e poeti. Proliferano le Scuole di Scrittura Creativa per una “creazione” da catena di montaggio: autori su vasta scala, quasi fossero robot all’ultimo grido. Di fatto, anche se le scuole riuscissero ad insegnare, oltre a una buona lingua, una tecnica “compositiva”, in caso di successo produrrebbero scrittori indistinguibili, di serie, del tutto sprovvisti di originalità.  Così, tutti forse scriverebbero il loro libro, ma nessuno lo leggerebbe.

La tecnica, la disciplina, l’obbedienza agli schemi non creano arte. Basti dire che tutti i diplomati del Conservatorio suonano perfettamente il loro strumento, ma pochissimi fra loro divengono concertisti. Inoltre, qualunque scuola, nel campo creativo, aderisce ad una sorta di “manifesto”: per esempio ancora nel Rinascimento il dovere era “Ars gratia Dei” cioè “ad maiorem Dei gloriam”. E se l’arte è stata creata lo stesso, è perché la musica non si concilia con la propaganda e la pittura può ignorare il messaggio religioso per esprimersi secondo i suoi propri canoni. Basti pensare a Caravaggio, capace di farci “innamorare” del didietro di un cavallo, più che della folgorazione di Paolo di Tarso. Per non parlare infine di chi ha voluto mettere l’arte al servizio della causa proletaria, come l’“arte socialista” che avrebbe voluto imporre Mosca, e che non raramente ha prodotto solo tentativi.

Oggi pochi temerari ignorano addirittura le Scuole di Scrittura e pretendono di fare da sé.  “Cosa vuoi fare?” “Voglio scrivere un libro”. “Su quale argomento?” “Non so, si scriverà da solo”. Questo ho sentito dire ad una giovane donna, che partecipava a un quiz televisivo. Poco importa che la potenziale autrice non abbia mai “letto” un libro, non sappia chi siano Catullo, Shakespeare, Dostoevskij.

Le Case Editrici, comunque, per mettersi al riparo da qualche scrittore tradizionale (uno con la testa, col cuore e con qualche nozione di letteratura) che produrrebbe invariabilmente un fiasco nelle vendite, cercano innanzi tutto una platea di compratori precostituita. Se sui social network qualcuno ha molti followers, c’è la speranza di sbolognare agli allocchi migliaia di copie inutili di un “libro” inutile. Così molti editori finiscono con l’inviare alle librerie poveri balbettii che chiamano “modalità espressive del nostro tempo” per coprirne la vacuità e a volte l’implausibilità. Sono ancora più audaci delle rinomate Scuole di Scrittura Creativa che sfornano sedicenti scrittori in batteria, nei cui racconti c’è l’identico sapore grigio di pomice o la ricerca della meraviglia a tutti i costi: ogni rigo un fuoco d’artificio. Che fa flop nel cielo.

Quella della scrittura è un’epidemia che non risparmia i personaggi più noti. Anzi, sono proprio loro i paradigmi (e principali beneficiari) della nuova moda. In ogni talk show su qualunque canale televisivo gli invitati si presentano con il loro ultimo libro. La notorietà dà il titolo di scrittore, mentre scrivere eventualmente un capolavoro non dà la notorietà. Alcuni di questi “autori” sono qualificati professionisti, tutt’altro che degli sciocchi, ma è indicativo che in tanto il libro gli è stato pubblicato, in quanto il nome era già familiare. E forse non basta neanche questo, visto che si adattano a farvi pubblicità, confermando che si tratta dopo tutto di un’operazione di marketing, i loro libri lavano più bianco del bianco. Moderna simonia.

Esistono anche le scuole di poesia. Unico maestro un ermetismo deformato, addomesticato e involgarito. Un ermetismo popolare, ridotto ad evanescenza della parola e del cervelloSorprendente come scrivere un verso scegliendo il primo lemma delle pagine dispari di un dizionario. Confusione. Promiscuità di termini e di idee. Fasci sconsiderati di parole. Fumo. Anzi, fuffa. Perché il fumo ha una sua eleganza. Si cerca di forgiare soldati della poesia addestrandoli a giocare con questa fuffa. Solo che la poesia non è indistinta vaghezza, non è nebbia, non è fumo: è coltello. È la vigoria di Dante, la passione di Foscolo, la maledizione di Rimbaud.

Mi è capitato di leggere delle poesie (premiate) di sedicenti alunni delle Scuole Medie che avevano frequentato una Scuola Creativa, e la prima impressione che ne ho ricavato è stata quella di ostentazione e supponenza. Falsità. Un ragazzino di dodici anni – forse copiando le frustrazioni di un qualche maestrino dalla penna rossa – scrive: Ubriachi di rivelazioni/che liberano i pensieri/rinchiusi nel punto/più profondo del cuore/siamo noi, gocce/di povere vite.

 Rivelazioni?

Nonostante tutto/non so dove sia finito/il mio amore./Forse è disperso/tra nostalgia e peccato/ed a me sembra perduto.

Amore? Nostalgia e peccato?

È dentro di me/o dentro di te/o forse nei giardini qui fuori/io so solo che il fiore universale/verrà sempre calpestato dall’uomo.

Fiore universale? Ammesso che abbia un significato, c’è in atto una vertiginosa astrazione, inconcepibile in un bambino di dodici anni. Forse il ragazzino alludeva al fiore universale sul quale si posa l’Angelica Farfalla dantesca. Essa soltanto avrebbe le dimensioni adeguate. Ma nemmeno questo è possibile, Dante si studia cinque anni dopo.

Ti ho scoperta/nell’ombra del vento./Ti ho visto/nel pensiero di un gabbiano/in volo per l’isola amara/del tempo perduto.

Questa è la più felice, quella che “suona meglio”. Ma la poesia non è casualità. Dubito che possa essere accusato di calligrafismo chi non conosce ancora la grafia.

C’è chi parla di Ali di libertà/voli sfrecciati nell’aria/con una maschera di ferro/accarezzato dall’elio splendente/…. Ali d’abisso/nell’infinito essere del cuore.

Astrazioni forse prive di significato, neanche brutte, ma del tutto al di fuori della portata degli attuali ventenni.

E c’è chi si autoqualifica: Siamo insignificanti angeli/in abissali mondi di uomini…

In questi giorni d’incresciosa felicità/vedo risolti nei tuoi occhi i miei/ sperando sempre/che la tua vita incontri la mia,/prima o poi.

Mi sono fermata di fronte all’“incresciosa felicità”. Che sarà mai questo strano ossimoro creato fresco fresco per dodicenni? Non sarà, mi sono detta, che il professore che ha curato l’editing (se questo è editing) della poesia avesse in mente Cardarelli (“la nostra incresciosa intimità”)? “Felicità”, “intimità”, insomma non c’è tanta differenza. Sono ambedue parole quadrisillabe in “à”.

E che strani dodicenni sono questi, che parlano di nostalgia, come se sapessero cos’è, come se avessero un passato (cosa ridicola, come un ottantenne che spiegasse che cosa farà da grande) e di peccato, come se dovessero prepararsi alla Prima Comunione? A quell’età il codice non li condanna nemmeno se uccidono, e loro parlano di peccato? Tutti i dodicenni e le dodicenni che ho conosciuto, pensano alla squadra del cuore per cui farebbero pazzie, al sesso (vitale, invadente scoperta), al vestito nuovo, al lucidalabbra e al cuore che accelera vedendo un compagnuccio. Certo, mutando i costumi, anche al saggio di danza e alle gare di nuoto. Ma come tutti, sempre, al primo amico e all’aquilone.

Povera poesia. Siamo passati dal “lucido dérèglement di tutti i sensi” di Rimbaud, alla poesia seriosa e compunta da oratorio, una poesia di obbedienza, per compiacere gli adulti, la retorica e il vaniloquio. Una poesia da api operaie. Poveri teneri bambini-poeti, così li voglio chiamare. Hanno obbedito, e gli adulti per premiarli li hanno messi sotto vuoto, hanno offerto pulcino in batteria, divenuto scatoletta.

Rimane un sospetto. Che degli intellettuali di piccolo cabotaggio abbiano approfittato dei nomi dei ragazzi per “editare” componimenti poetici che non avevano attirato l’attenzione nemmeno dei parenti più stretti.

                                                   alimarbit@yahoo.com

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